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Tra caffè e gin, sul truck Chicchiamo l’inserimento lavorativo è con tutta la famiglia

“Eravamo con il truck ad un evento. Si è presentato un signore che suonava nella banda, dicendo: ‘Caffè per tutti’. Erano settanta musicisti. Michela e Alice alla mescita, Ciro alla cassa perchè sa usare il pos, io e Nicolò alla logistica, li abbiamo serviti tutti!”. Luca Laghi è il papà della famiglia Laghi, anima, braccia e cuore di Chicchiamo, nuovo ‘bar-truck’ dell’impresa sociale Cavarei di Forlì, che serve prodotti di caffetteria e gin tonic, rigorosamente solidali, sul territorio romagnolo e oltre.

Fa parte del progetto ‘Insolite essenze’ dell’Impresa Sociale forlivese CavaRei realizzato nell’ambito del Programma Formula di Intesa Sanpaolo, in collaborazione con Fondazione CESVI, con l’obiettivo di accompagnare e sostenere persone in situazioni di disabilità o disagio mentale, nonché le rispettive famiglie, in un percorso di inserimento lavorativo.

“Abbiamo cercato CavaRei perchè volevamo realizzare una nostra idea”, racconta Luca, professore universitario, sposato con Michela e padre di Alice, 17 anni, e Nicolò, 14 anni. “Alice studia all’Alberghiero – continua il papà Laghi – Nonostante le sue difficoltà, ha un carattere meraviglioso: fa di tutto per far star bene le persone. Con mia moglie avevamo in mente di realizzare un bed & breakfast che potesse essere posto di lavoro e di vita per Alice e altri ragazzi con disabilità. Quando abbiamo incontrato la cooperativa ci siamo illuminati reciprocamente e abbiamo cominciato a entrare nel progetto Insolite essenze”.

Nel frattempo, è arrivato il furgone che è stato progettato, allestito e perfezionato anche con l’aiuto della famiglia Laghi. Sul truck, Alice con Michela si occupa del servizio, mentre Luca e Nicolò della parte logistica. Ogni fine settimana, gestiscono Chicchiamo al centro commerciale di Forlì che ha richiesto la presenza del progetto tutti i weekend. 
“Alice è ipovedente – dice Luca – Ha paura di tutto ciò che può scottare o fare male. Ora sta acquisendo sicurezza, sia sul truck, sia nel quotidiano. E tutta la nostra famiglia è entusiasta del progetto”.

Percorsi di formazione professionale sul caffè e sulle erbe aromatiche in sinergia con aziende specializzate, sperimentazione sul campo grazie al truck e presenza sul territorio con 70 eventi in soli sei mesi, sono gli ingredienti di Chicchiamo. “Si tratta di una vera e propria palestra per i ragazzi – spiega Michela Schiavi, responsabile Comunicazione di CavaRei – Acquisiscono competenze tecniche e relazionali per poter poi essere inseriti in contesti lavorativi diversi. Il nostro obiettivo? Che nel 70% dei bar di Forlì ci sia almeno un ragazzo di Chicchiamo”. 

Il primo sarà Ciro, 24 anni, inserito in CavaRei grazie alla legge sull’assolvimento da parte delle aziende dell’obbligo di assunzione di persone con disabilità attraverso le cooperative. Con esperienza nella cucina di una struttura sociale residenziale e sul truck Chicchiamo, sta per essere assunto da un bar locale. “Un sogno che si realizza”, commenta Michela. Oggi per Ciro, domani per Alice.

Cosa dà Clicchiamo alla nostra famiglia? Una prospettiva di lungo periodo, un progetto da costruire facendo piccoli passi insieme, conclude Luca.

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Educazione Storie

Dentro la Brick’s Room di Cascina Oremo 

“Con i Lego costruiamo relazioni, per tutti”. Dai ragazzi con autismo alle aziende.

C’è uno spazio a Cascina Oremo dove grandi e piccoli, con o senza disabilità, si allenano a costruire relazioni. È la Brick’s Room, una stanza dedicata ai mattoncini LEGO, gestita dalla Cooperativa Domus Laetitiae all’interno del nuovo polo destinato ad apprendimento, sport, orientamento e inclusione recentemente aperto a Biella dal Consorzio Sociale Il Filo da Tessere. Uno spazio nato all’interno della Cooperativa e trasferito a Cascina Oremo, che ospita innanzitutto gruppi di adolescenti con problematiche dello spettro autistico, ma che ha le potenzialità e l’ambizione di coinvolgere tutti.  

“Lo spazio Lego – comincia Michela Braga, psicologa, responsabile de La Casa per l’Autismo e referente di psicotecnologie per la Cooperativa Domus Laetitiae – è nato all’interno dei servizi di Casa Autismo. Con operatori appositamente formati Play included (realtà che insieme alla LEGO Foundation ha sviluppato una specifica metodologia per l’utilizzo dei LEGO a fini terapeutici, ndr) abbiamo costituito due gruppi: uno con bambini della scuola primaria, uno con ragazzi della secondaria di primo e secondo grado. Costruendo con i mattoncini e utilizzando i metodi appresi, abbiamo lavorato sulle abilità sociali dei partecipanti, sulla condivisione di un’attività, sullo scambio dei ruoli, sulla gestione dei disaccordi. La sperimentazione è andata benissimo e abbiamo deciso di continuare”.  

Il laboratorio LEGO, dunque, si è spostato da La Casa per l’Autismo a Cascina Oremo ed è diventato uno spazio dedicato in un contesto meno protetto. Una stanza modulabile, funzionale per attività a piccoli gruppi, dotata di tavoli e sedie, di armadiature a tema, di spazi espositivi dove posizionare le creazioni, di set con istruzioni e pezzi per il free style. “L’attività con i LEGO – spiega la psicologa di Domus Laetitiae – è un’occasione anche per lavorare sulle autonomie. Nei gruppi condividiamo la disponibilità di un budget per acquistare nuovi set e con i ragazzi guardiamo i cataloghi e programmiamo gli acquisti”.  

Ma perché i mattoncini fanno così bene?

“Perché si fa leva innanzitutto sul piacere del gioco, una passione che spesso è condivisa in partenza – commenta Michela Braga – Gli operatori, in maniera non esplicita, ma strutturata, lavorano sugli scambi comunicativi e interattivi, in tutte le fasi dell’attività: dall’approccio ai cataloghi alla costruzione in gruppo di set con la definizione dei diversi ruoli (ingegnere, fornitore di pezzi, costruttore), dalla costruzione libera al riordino dello spazio”.  

I ragazzi di Casa Autismo continuano a frequentare la stanza a Cascina Oremo, tutte le settimane per due ore, ma la Brick’s Room si è aperta anche ad altri. “Stiamo allargando la proposta anche a ragazzi che non hanno diagnosi di autismo, ma difficoltà relazionali – continua la psicologa di Domus LaetitiaeE a breve attiveremo dei laboratori per le classi, ne abbiamo già nove tra primarie e secondarie. In più, ci sono gli eventi aperti al territorio che, quando li realizziamo, vanno sempre sold out. In queste occasioni, si vede quanto la Brick’s Room sia un grande luogo di inclusione, anche tra generazioni. Ci sono i ragazzi con autismo che, da esperti, fanno da mentori a chi entra e gli adulti che si mettono a giocare con i bambini”. 

“Essere dentro Cascina Oremo – conclude Michela Braga – è una grande opportunità per aprirsi a nuovi destinatari e a nuove prospettive. Ad esempio, stiamo progettando una pista di sviluppo della nostra attività mettendo insieme LEGO e psicotecnologie e stiamo verificando la possibilità di utilizzare la metodologia dei mattoncini per attività di team building da proporre alle aziende intercettate dai servizi al lavoro del Consorzio”. 

Lo spazio dedicato ai mattoncini è solo uno dei servizi di Cascina Oremo che ospita ambienti di apprendimento attivo e crescita personale da 0 a 18 anni (e oltre), percorsi di orientamento ed educazione alla scelta, sport per persone con e senza disabilità e percorsi specializzati di valutazione, apprendimento, consulenza educativa e supporto psicologico su disabilità ed età evolutiva.

Cascina Oremo è un progetto finanziato da Fondazione Cassa di Risparmio di Biella e selezionato da Impresa Sociale Con I Bambini nell’ambito del Fondo per il Contrasto alla Povertà Educativa Minorile, che coinvolge Consorzio Il Filo da Tessere e le Cooperative Tantintenti, Sportivamente e Domus Laetitiae. Un polo innovativo, luogo di sviluppo educativo, sociale, culturale, del benessere e dell’apprendimento. Un punto di riferimento di chi crede nell’importanza di una comunità educante che sperimenta e si innova. Uno spazio generativo per le persone e con le persone.  

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A Casa Milo i ragazzi con disabilità si allenano a vivere da soli

Pietro lo dice subito: “Perché i miei fratelli sì e io no?”. Martina ha le idee chiare: “In futuro mi vedo in una casa con due mie amiche”. Si respira un desiderio comune di autonomia a Casa Milo, una casa a tutti gli effetti nella zona nord di Milano, gestita dalla Cooperativa Cascina Biblioteca, in cui ragazzi con disabilità sperimentano la vita quotidiana fuori dalla famiglia. Imparano a prendere la metropolitana, a fare la spesa, a pagare le bollette, a rifarsi il letto, a curare la propria igiene personale, a fare la lavatrice. Tutto in un contesto abitativo vero, ma protetto, all’interno di un percorso graduale, su misura e condiviso con le famiglie e con altri ragazzi desiderosi di imparare a “vivere fuori casa”. 

“Durante la pandemia – racconta Pietro, 27 anni, ex residente di Casa Milo – mi sono chiesto cosa volessi fare nella vita. Avevo il desiderio di diventare autonomo e di andare a vivere fuori casa come i miei fratelli. Con l’assistente sociale abbiamo deciso di sperimentare per un anno Casa Milo. Qui ho conosciuto persone che mi hanno aiutato e ho imparato tante cose. Ora vivo a Casa Montemartini (una micro-comunità che unisce occupazione lavorativa e autosufficienza domestica, ndr) con altre cinque persone e sogno di trasferirmi a Firenze con la mia ragazza”. Martina, invece, 23 anni, figlia unica e un diploma in Servizi sociosanitari, è arrivata a Casa Milo attraverso lo Sfa, il Servizio diurno di Formazione all’Autonomia di Cascina Biblioteca. “Ho iniziato a fare la prima notte a maggio – racconta – Poi la seconda, poi sono stata un’intera settimana. Nel frattempo, ho mantenuto tutte le mie attività, compresi lo sport e il teatro. Casa Milo è un’alternativa vera e propria alla casa. Ho imparato a vivere con persone che prima non conoscevo, a condividere gli spazi e a rifare bene il mio letto”. 


L’ingresso a Casa Milo avviene su iniziativa della famiglia o su proposta dei servizi territoriali o della cooperativa, e per la maggior parte dei casi grazie al finanziamento della legge 112 del ‘Dopo di noi’, attraverso i voucher di ‘Accompagnamento all’autonomia abitativa’. Si tratta di un ingresso graduale: si parte partecipando a quattro incontri a tema sull’autonomia abitativa che si svolgono in gruppo e con un operatore, poi si comincia a frequentare la casa per alcuni momenti pomeridiani e serali, fino ad arrivare al pernottamento. Ad aiutare nella gestione della Casa, un monitor touch screen appeso in soggiorno che consente di condividere tra ragazzi, operatori, coordinatori e famiglie presenze e attività, realizzate e da realizzare. “Quando ci dicono: ‘Ma come, oggi avete solo fatto la spesa?’ ci viene da sorridere – spiega Jennifer, educatrice di Casa Milo – Già, perché per i ragazzi di Casa Milo anche le faccende quotidiane più scontate possono far emergere difficoltà e insicurezze. Qui, con l’aiuto degli educatori, imparano ad affrontarle non perché qualcuno le fa al posto loro, ma perché loro che sono i protagonisti costruiscono routine e conquistano autonomie. E allora sì, con soddisfazione, rispondiamo che abbiamo solo fatto la spesa!”.

La formula ideale sperimentata in questi anni è quella di una settimana in Casa Milo, dal lunedì al venerdì, per una volta al mese: consente l’uscita dalla famiglia in modo graduale e l’osservazione da parte degli operatori e delle famiglie di risorse ed esigenze personali per poter poi trovare i contesti abitativi migliori per il futuro. “La casa in cui vivo adesso – dice Pietro – è diventata la mia casa: si ride, si condivide, si litiga, come in tutte le case. La cosa più difficile che ho imparato a Casa Milo? A fare i conti per la spesa”. Casa Milo è inserita in un contesto di social housing con 300 appartamenti, sette realtà del terzo settore attive e tanti momenti di scambio e di condivisione. “Durante un aperitivo con i vicini di casa – ricorda Pietro – ho raccontato il mio percorso a Casa Milo e tutti sono rimasti molto contenti. Ci tengo molto a condividere la mia esperienza perché è un bell’esempio. Perché voglio dimostrare che l’autonomia è questa e che è un’autonomia possibile”. 

Fondamentale per questi percorsi il rapporto con le famiglie. “La famiglia può condizionare in positivo o negativo il percorso di autonomia – continua Jennifer – Importante per noi è condividere con i genitori la linea educativa, dare riscontri su come sta andando l’esperienza, ricevere feedback sui comportamenti dei ragazzi a casa, creare occasioni di incontro e di condivisione in gruppo dedicati ai genitori”. “Casa Milo – conclude Maria Malacrinò, la coordinatrice – non è né una vacanza, né uno sradicamento. È una palestra in cui i ragazzi e le famiglie si allenano per un obiettivo grande, un obiettivo di futuro”. 

Il progetto Casa Milo è realizzato dalla Cooperativa Cascina Biblioteca grazie al contributo di Fondazione Cariplo ed è inserito all’interno del progetto “Scambi Vitali” con capofila Consorzio Sir.

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A Cascina Falchera il restauro inclusivo dell’ultimo tram centenario di Torino

“Qui uniamo riuso e riscatto sociale”.

C’è un tram centenario parcheggiato a Cascina Falchera, l’hub di innovazione sociale e ambientale gestito dal Consorzio Kairos in una vecchia cascina da poco riqualificata a nord di Torino. E’ il numero 614 ed è stato costruito alla fine degli anni ’20 nelle officine dell’ATM (Azienda Torinese Mobilità). In origine bidirezionale, con porte aperte e di colore rosso-crema, negli anni ’30 è stato oggetto di un restyling che lo ha trasformato in unidirezionale, con porte pneumatiche e colore verde bitonale. Ha prestato servizio fino agli anni ’50. E’ sopravvissuto alla demolizione perché è stato utilizzato prima come mezzo da carico per il trasporto della frutta, poi come container per il ritrovo dei ferrovieri.

A gennaio, il 614 è stato trasferito dal deposito della Metropolitana a Cascina Falchera e affidato nelle mani di Flavio Castagno, falegname ed educatore, già restauratore di locomotive, appassionato di riuso e di riciclo. E’ lui che sta seguendo per il Consorzio Kairos, all’interno della falegnameria sociale (RE)Made of wood, lo straordinario recupero di questo mezzo, realizzato con il contributo di Fondazione CRT. “Ora lo stiamo disallestendo – spiega Flavio – e stiamo documentando e catalogando tutto con disegni e fotografie. Poi faremo il progetto di riallestimento con l’obiettivo di riportare gli interni alla loro versione originale anche attraverso l’aiuto di immagini storiche fatte durante gli incidenti”.

Il restauro del tram è una straordinaria occasione anche di coinvolgimento, formazione e riscatto per persone che, in diversi modi, vivono situazioni di fragilità o vulnerabilità. Al laboratorio artigianale di Cascina Falchera prima dell’estate, infatti, sono terminati tre tirocini formativi lavorativi che hanno coinvolto due donne, una inserita in un percorso di emersione dalle dipendenze, una in un percorso di riattivazione al lavoro, e un migrante richiedente asilo, e da ottobre ospiterà un nuovo ciclo di borse lavoro che si occuperà anche del restauro del tram. “Quella del laboratorio artigianale è un’esperienza importante per persone con diverse fragilità – commenta Valentina Paris, di Exar Torino, che gestisce il servizio di erogazione delle borse lavoro – Si tratta di un impegno quotidiano che porta le persone a riorganizzare la propria vita dal punto di vista degli orari e degli impegni e che le fa sentire di nuovo parte di un gruppo, di una comunità. Al laboratorio si impara facendo, si acquisiscono competenze e sicurezza in se stessi. In più, c’è la continuità della remunerazione che riattiva la consapevolezza economica e la riorganizzazione dei bilanci familiari. Tutte questioni fondamentali e non sempre facili che aiutano a ripartire più forti”. 

“Il restauro
– aggiunge Flavio – consente di trasformare qualcosa di vecchio, brutto o rovinato in bellezza ed è una grande possibilità di riscatto per le persone che ne sono protagoniste. Costruire e realizzare qualcosa alza l’autostima e consente di rimettersi in gioco”. “Una dimostrazione di questo? – racconta l’educatore – Qualche mese fa è uscito un articolo sul restauro del tram. Il titolo era: Tram restaurato da donne fragili. In quel periodo avevamo inserito nel progetto anche due ragazze, studentesse delle Belle Arti. Si erano arrabbiate. Dicevano: Perché ci dicono fragili? Guarda che belle cose che stiamo facendo! Ecco, di fronte a qualcosa di bello che stai facendo e che gli altri riconoscono, la fragilità scompare e cresce l’orologio di chi ce la può fare, nel lavoro e nella vita”. 

Il tram 614, una volta svuotato, verrà portato a Brescia, presso una officina che si occuperà di sistemare la parte meccanica e la carrozzeria. Nel frattempo, Flavio e il suo team si occuperanno di recuperare o ricreare l’arredo originario: dalle panche al sedile di guida, fino ai vetri incassati nella struttura di legno. L’ultima operazione sarà quella del rimontaggio. Il tram 614, poi, ritornerà a circolare e, grazie all’Associazione Torinese Tram Storici, sarà protagonista di tour culturali e turistici per la città di Torino. 

Cascina Falchera è un Bene Comune della Città di Torino concesso al Consorzio Kairòs, sino al 2040, da ITER – Istituzione Torinese per una Educazione Responsabile, con l’obiettivo di valorizzarne la vocazione educativa e trasformarlo in un hub di Innovazione sociale. Sono partner del progetto: Città di Torino, Università degli Studi di Torino – Dipartimento di Scienze Veterinarie e Dipartimento di Psicologia, Liberitutti s.c.s., Crescere Insieme s.c.s., Ecosol s.c.s, Liberitutti Factory s.r.l. impresa sociale, Damamar odv, RE.TE. ong, Impollinatori Metropolitani aps, Parco del Nobile aps, Legambiente onlus, Wea Foundation, Padel M2, (Ri)generiamo, Leroy Merlin

Fotografie di Marzia Allietta

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Nel carcere di Cagliari i panni sporchi si lavano insieme

A 24 anni, con una condanna di 30 da scontare, il progetto Lav(or)ando gli ha dato una grande possibilità, occupazionale e di vita: invece di essere trasferito al carcere per adulti, se supererà il periodo di prova, potrà essere affidato ad una comunità e lavorare come magazziniere in un supermercato. Fino alla completa libertà. 

A Cagliari, la Cooperativa Elan gestisce da diversi anni la lavanderia “Fresh&White” dellʼIstituto Penale per i Minorenni di Quartucciu e dal 2020 la lavanderia industriale della Casa Circondariale di Uta. Qui vi lavorano i detenuti adulti selezionati per il progetto Lav(or)ando, sostenuto da Fondazione con il Sud. Affiancati da un tutor, con un contratto di tirocinio di cinque mesi, si formano e gestiscono le attività di lavaggio, asciugatura, stiratura e confezionamento di capi sporchi. Con un sistema di tracciamento che, attraverso etichette barcode, consente di avere un controllo totale sul singolo capo evitando smarrimenti e garantendo un report sul numero di lavaggi. Dalla lavanderia di Uta passano 7.000 capi al mese provenienti dal carcere stesso, ma anche e soprattutto da commesse esterne. Così, i detenuti lavano le divise dei Vigili del Fuoco di Oristano e le lenzuola e gli asciugamani dei Carabinieri della Legione Sardegna. Negli anni si sono occupati dei ‘panni sporchi’ dell’Esercito, della Marina Militare e della Polizia Municipale di Cagliari. Un progetto di lavoro, di recupero sociale, di integrazione. Dentro e fuori dal carcere.

Terminato il tirocinio alla lavanderia nel carcere di Uta, infatti, dopo un percorso di orientamento lavorativo e di valutazione di obiettivi e competenze, chi può accedere a misure alternative alla detenzione o chi è assegnato al lavoro esterno (ex articolo 21) viene inserito per altri cinque mesi di tirocinio in imprese del territorio che operano in tutti i settori, dallo smaltimento dei rifiuti, alla grande distribuzione, alla gestione di riserve naturali. Per gli altri c’è la possibilità di essere assunti con un contratto a tempo determinato presso la lavanderia del carcere.

I detenuti coinvolti hanno un’età compresa tra i 24 e i 60 anni. Hanno storie e provenienze diverse. Qualcuno deve scontare l’ergastolo. Vengono proposti per il progetto dall’equipe educativa del carcere in base ad alcuni requisiti (condanna penale definitiva, pena residua non inferiore a 2 anni, possibilità di accedere alla misura ex art. 21 o alle misure alternative) e sottoposti a colloqui con la cooperativa. Il modello adottato da Elan è lo stesso per minori e adulti: quello della progettazione personalizzata portata avanti in collaborazione con la rete sociale del carcere e del territorio.

“Nella lavanderia
– spiega Elenia Carrus, vicepresidente della cooperativa Elan e Responsabile dell’Area inclusione sociale lavorativa – i detenuti investono il tempo infinito della detenzione in un’attività produttiva: acquisiscono competenze professionali e trasversali da spendere nel mercato del lavoro e nella vita e guadagnano uno stipendio che spesso utilizzano per aiutare le proprie famiglie”. 

Fondamentali per i percorsi, tre figure in particolare: il tutor aziendale che è responsabile della lavanderia, l’orientatore professionale che allo scadere dei primi cinque mesi di tirocinio affianca i detenuti nel bilancio di competenze e nel progetto professionale, e il tutor di accompagnamento che è un educatore ed è a supporto dei detenuti coinvolti, durante il tirocinio dentro e fuori dal carcere, diventando anche punto di riferimento per le imprese esterne che aderiscono al progetto e al marchio. Già, perché Lav(or)ando non è solo un progetto, ma è un vero e proprio marchio, etico e solidale. 

“Fare attività lavorativa con i detenuti è una infrastruttura economico-educativa permanente – spiega Carlo Tedde, responsabile del progetto Lav(or)andoPer questo abbiamo creato un marchio. Alle imprese che aderiscono, per ora una decina, garantiamo gratuitamente la messa a disposizione di un tutor che segue aziende e detenuti e l’accompagnamento rispetto a sgravi professionali e fiscali”. I vantaggi del marchio sono anche per il progetto che, così, è maggiormente riconosciuto e riconoscibile. “Si tratta della parte immateriale di bene comune – aggiunge Carlo Tedde – Questo è un progetto che va a vantaggio dei detenuti, delle imprese e di tutta la comunità perché abbassa drasticamente la recidiva, riduce i costi per lo Stato e quindi per i cittadini e crea valore sociale. Lavorare sull’occupabilità dei detenuti dentro e fuori dal carcere vuol dire alzare la capacità di cambiare e questo è strategico per tutti”. 

Il progetto Lav(or)ando dura 4 anni e sostiene il recupero sociale e l’integrazione di 24 persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi. Al momento sono stati attivati 17 percorsi. Con qualche tema da affrontare: dalla carenza di personale educativo in carcere rispetto agli oltre 570 detenuti adulti presenti alla gestione degli spostamenti esterni per raggiungere il posto di lavoro (“Abbiamo proposto l’utilizzo di bici elettriche con GPS che consentirebbero tra l’altro di tracciare i movimenti e che sono utilizzate già in altri istituti per questo tipo di progettualità”, dice Eliana); con una grande sfida: quella di aumentare sia le commesse esterne affinché la lavanderia possa sostenersi in autonomia, sia le imprese disposte ad inserire detenuti per ampliare l’offerta occupazionale; e con un sogno: aprire una lavanderia al dettaglio in centro città a Cagliari con anche bar annesso come punto di incontro e di socializzazione. Il modello sarebbe lo stesso, come anche il motto: “I panni sporchi laviamoli insieme”. Questa volta però nel cuore della comunità.

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“Il trauma ha una coda lunga.” Da Forlì il racconto di Veronica Tedesco ancora sfollata

“In strada, coperti dal fango, c’erano i sacrifici e ricordi di una vita. È stata dura accettare di aver perso tutto. E ancora oggi non solo non siamo rientrati nella nostra casa ma fatichiamo a reggere la quotidianità. Il trauma ha una coda lunga”.

Veronica Tedesco lavora come educatrice al centro educativo San Paolo di Forlì per la Cooperativa Paolo Babini e si occupa di minori in situazione di disagio e delle loro famiglie. 

Da circa un mese con il suo compagno aveva acquistato il piano terra di una casa nel quartiere S. Benedetto, quando quella sera del 16 maggio in pochi minuti l’acqua è arrivata ad un metro e dieci di altezza. La paura, l’ultimo tentativo di salvare qualcosa, la fuga dai vicini al piano superiore con il bimbo di due anni e uno zainetto. Poi il fango e il silenzio, surreale, interrotto solo dal rumore degli elicotteri. 

“Dopo quattro giorni, abbiamo riaperto la porta di casa e abbiamo visto la distruzione. Abbiamo pensato di non farcela, io ho pianto”, dice Veronica. Senso di impotenza e angoscia, ma anche tanta solidarietà. “In quei giorni mi voltavo – racconta – e vedevo amici, parenti e colleghi che erano venuti ad aiutarci. Ero vuota dentro ma attonita da questa energia. Non finirò mai di ringraziare la mia cooperativa che ha deciso di vivere anche con noi operatori, quei valori che ogni giorno portiamo all’esterno. Non ci siamo sentiti soli e siamo grati per questo”. 

A tre mesi di distanza, però, Veronica e la sua famiglia non sono ancora tornati a casa. Vivono in un appartamento al Villaggio Mafalda della Cooperativa Babini, in attesa di fare i lavori per rendere di nuovo agibile la loro abitazione. Nel frattempo, il centro educativo San Paolo ha riaperto, lei e il compagno sono tornati a lavorare e il bambino ha ripreso ad andare all’asilo. “Ma arrivare a sera è difficile – confessa – Ci sentiamo ancora accampati e non vediamo l’ora, per noi e per il nostro bimbo, di recuperare un po’ di serenità. Ma ci vorrà tempo”.
I problemi sono tanti, la ripartenza è purtroppo è ancora lontana. Solo a Forlì sono ancora migliaia i nuclei sfollati, ci sono danni agli edifici e agli impianti fognari, non si trovano più auto usate disponibili, le strade non sono ancora state completamente ripristinate, molte imprese soprattutto agroalimentari non riapriranno più. “Gli aiuti che abbiamo raccolto e che ancora raccogliamo – descrive Marco Conti, presidente di Consorzio di Solidarietà Sociale di Forlì – li abbiamo dedicati prima all’accoglienza degli sfollati, innanzitutto nostri operatori, e ora li impieghiamo per far rientrare al più presto le famiglie nelle proprie case. In più, come cooperative, abbiamo implementato i servizi rivolti a minori e anziani in particolare, per dare una mano alle famiglie nella loro gestione durante la fase di ‘ricostruzione’, e abbiamo avviato un’attività di supporto psicologico a chi ha subito il trauma dell’alluvione. La situazione è ancora pesante, gli aiuti nazionali non sono ancora arrivati e abbiamo bisogno di mantenere alta l’attenzione”. Insieme alla speranza e alla solidarietà. 

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L’outdoor che fa incontrare nonni e bambini. Il progetto intergenerazionale della Cooperativa Equa a Milano

Nonno Remo, 90enne con la passione per la lettura, prima del covid andava in biblioteca e sceglieva lui personalmente il libro da leggere ai bambini nel giardino del Nido dei Tigli, nel quartiere Affori di Milano. E’ l’outdoor education che unisce le generazioni promuovendo nuovi apprendimenti e nuove relazioni. 

Il Nido dei Tigli, attivo da 21 anni e gestito dalla Cooperativa Equa, è stato il primo nido del territorio milanese ad attivare un approccio intergenerazionale, sfruttando e mettendo a sistema la vicinanza con la residenza per anziani la Casa dei Tigli, gestita sempre da Equa. Con un ruolo del “fuori” fondamentale, soprattutto dopo la pandemia. 

“La Casa è sopra il nostro nido – spiegano Annalisa Falcone, coordinatrice, e Chiara e Selene, educatrici del Nido dei Tigli – Ci è venuto quasi spontaneo creare un progetto che unisse bambini e anziani. Con la pandemia ci siamo fermati, ma quest’anno abbiamo ripreso le attività e l’outdoor è stato imprescindibile”. Un “outdoor” che da anni è caposaldo del Nido dei Tigli, immerso in due grandi e bellissimi giardini che vengono vissuti 365 giorni l’anno per sviluppare apprendimenti, per dormire e mangiare, per incontrare le famiglie. Un “outdoor” che è inteso anche come esterno rispetto al Nido e quindi come quartiere e territorio

Così, una volta la settimana, spesso all’aperto, piccoli e nonni modellano l’argilla, disegnano, coltivano l’orto. Poi, insieme, fanno le ‘esplorazioni urbane’ nel quartiere, visitando musei, piccoli negozi e la biblioteca. “Si tratta di un progetto flessibile – spiegano dal Nido dei Tigli – perché deve rispettare lo stato di salute degli anziani coinvolti e tutelare anche i bambini”. Un progetto che ha benefici per i nonni, per i bambini e per gli operatori. “Gli anziani – raccontano Annalisa, Chiara e Selene – hanno la luce negli occhi quando incontrano i nostri piccoli, alcuni rimandano i loro appuntamenti al mercato o dal parrucchiere pur di partecipare agli incontri. In più, sostenendo i bambini in piccole autonomie, ad esempio aiutandoli a vestirsi, i nonni riacquistano competenze e si sentono ancora capaci e utili”. 

Per i bambini è un’occasione in cui si sviluppano tante skills. “Sperimentano nuovi spazi – testimoniano le operatrici del Nido dei Tigli – e si rapportano a persone che hanno una certa fragilità, una certa lentezza, magari che usano ausili particolari che suscitano la loro curiosità. Da questi incontri nascono relazioni affettuose e profonde”. E per gli operatori? “Siamo i primi ad affezionarci agli anziani – affermano le tre operatrici di Equa – Grazie a questo progetto, i nonni non sono più solo utenti, ma persone portatrici di storie, con cui entrare in relazione, anche andando a bere un caffè insieme”. 

Tutti benefici che l’esterno amplifica in modo esponenziale. “Il fuori è uno spazio comune che leviga le differenze. All’esterno ci sono stimoli ed energie diverse che arrivano sia ai piccoli, sia agli anziani e la relazione reciproca viene favorita”, confermano le operatrici di Equa. “Maria Montessori – aggiunge Annalisa – diceva: ‘per prima cosa offriamogli il mondo’ e il mondo è fatto anche dall’altro. E l’altro è anche l’anziano”. 

“All’interno del percorso sull’outdoor education che contraddistingue la nostra filiera educativa – conclude Erica Acquistapace, Responsabile Area Generazioni Future di Equa – l’approccio intergenerazionale è un terreno di crescita e di sviluppo non solo per bambini e anziani, ma anche per la cooperativa. Da una parte, infatti, vogliamo implementare questo modello, dall’altra stiamo lavorando affinchè il Nido dei Tigli sia sempre più non solo luogo che accoglie i bambini, ma luogo che accoglie le famiglie, nonni compresi, e che si apre al territorio”.

L’intervista si inserisce nell’iniziativa di valorizzazione delle cooperative e imprese sociali della rete CGM che hanno risposto alla Call For Place della quarta edizione di FUORI è DENTRO, il workshop dedicato all’outdoor education.

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I giovani crescono all’aperto: ad Aosta le politiche giovanili si fanno in outdoor

“Siamo andati qui vicino ad arrampicare e una ragazza proprio non ne voleva sapere di provare. Le ho detto: va bene, allora salgo io e tu mi fai sicura. C’è stata. Da quel momento il suo rapporto con gli educatori e con il gruppo è cambiato. Qualcuno ha avuto fiducia in lei e questa cosa l’ha fatta crescere”. 

I ragazzi e i giovani hanno voglia e bisogno di outdoor education? Eccome. Non ha dubbi Michele Tranquilli, responsabile dell’area aggregazione giovanile della Cittadella dei giovani di Aosta, il più grande centro culturale e polo di aggregazione giovanile della Valle d’Aosta, voluto dal Comune di Aosta e dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta negli spazi dell’Ex Macello, che collabora con la cooperativa L’esprit à l’Envers per creare proposte di aggregazione e educazione informale per i giovani del territorio.

Qui, nello splendido ecosistema alpino, le politiche educative e giovanili si portano avanti in outdoor, sfruttando anche il patrimonio naturalistico circostante. Interventi di animazione territoriale, incontri tematici a contenuto ambientale, iniziative di avvicinamento alla pratica sportiva, laboratori di esplorazione del territorio. E poi, lo skate park della Cittadella, punto strategico dell’outdoor education che avvicina anche ragazzi tradizionalmente non coinvolti dalle politiche giovanili. 

“Coinvolgiamo i giovani in un processo di crescita a contatto con la natura”, la sintesi di Michele. E la risposta è sempre molto positiva. Come quella ottenuta in occasione dell’esperienza di scambio internazionale Erasmus+ proprio incentrata sull’outdoor education (“Abbiamo avuto più adesioni dei posti disponibili e abbiamo dovuto selezionare i partecipanti”). Dal 24 giugno e fino al 1 luglio alla Cittadella 15 ragazzi valdostani e 15 ragazzi irlandesi hanno vissuto un’esperienza di outdoor education dedicata al tema della montagna con laboratori a cielo aperto e attività sopra i 2000 metri. “Una occasione di crescita personale e collettiva – commenta Michele – che punta anche a migliorare nei partecipanti la consapevolezza ambientale”. 

Non solo esperienze nella natura, dunque, ma attività di rilettura delle esperienze. Così, l’arrampicata in falesia diventa un pretesto per mettere i giovani di fronte alle difficoltà e al tema della fiducia e, nel momento di debriefing, la scalata diventa una metafora per rileggere paure e relazioni. Oppure l’esperienza di rafting è una occasione per accrescere lo spirito di gruppo e la capacità di reagire in fretta in una particolare situazione. “Crediamo – aggiunge Michele – che l’outdoor education sia molto importante per gli adolescenti e i ragazzi che stanno crescendo perché favorisce il lavoro su se stessi e sulla loro dimensione nella società. Non è solo ‘fare attività all’aperto’ ma approfondire l’esperienza realizzata, cercando di trarne i valori”. 

La prossima sfida dell’outdoor education della Cittadella, è il contrasto alla dispersione scolastica“In Valle – conclude Michele – l’abbandono scolastico si sta facendo sentire molto. Stiamo lavorando, in collegamento con le scuole del territorio, ad una proposta di curricula alternativi ai percorsi scolastici tradizionali per coinvolgere i ragazzi che non vanno più a scuola. E questi percorsi sono incentrati proprio sull’outdoor”. 

L’intervista si inserisce nell’iniziativa di valorizzazione delle cooperative e imprese sociali della rete CGM che hanno risposto alla Call For Place della quarta edizione di FUORI è DENTRO, il workshop dedicato all’outdoor education.

In copertina, Cittadella dei Giovani, foto di L’Esprit a l’Envers, Copyright: Andrea Vallet

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Terra di Resilienza: l’innovazione sociale che nasce dal grano e dalla solidarietà

Grano e relazioni: “Così torniamo a mangiare il nostro pane”
Terra di Resilienza nella mappa europea di Agroecology

Sono stati inseriti nella mappa sull’Agroecologia in Europa tra i 20 esempi italiani per l’innovazione sociale e le pratiche agroecologiche messe in campo. Sono “le commari e i compari” di Terra di Resilienza, cooperativa della rete CGM e socia del Consorzio La Rada, con sede a Caselle in Pittari, in provincia di Salerno, nel Cilento, che da anni si occupa di quella “innovazione sociale che nasce dalla terra e dalla solidarietà“.

Siamo tornati a mangiare il nostro pane”, esordisce Antonio Pellegrino, co-fondatore della Cooperativa, laureato in Sociologia a Napoli, un intellettuale diventato contadino, come lo hanno definito. 
A Caselle in Pittari la cooperativa recupera grani indigeni a rischio scomparsa e li affida a coltivatori locali che li lavorano in modo autonomo, attivando percorsi di agricoltura consapevole e responsabile.


Tutto è nato da un palio, il Palio del Grano, che ogni anno dal 2005, la terza settimana di luglio, coinvolge le comunità della zona intorno alla mietitura. Il Palio è una vera e propria gara in cui 120 partecipanti divisi negli otto rioni di Caselle in Pittari, gemellati con altre comunità della zona, si sfidano a mietere per primi il grano, armati solo di falcetti.
Un’esperienza “seminale”, non folkloristica, che ha fatto nascere progetti, esperienze e imprese sociali. “Grazie al Palio ci siamo riconnessi col passato, ci siamo inseriti in un discorso, non con nostalgia ma con lo sguardo fisso alla contemporaneità”, spiega Antonio. 

Dal Palio è nata la Biblioteca del Grano, un campo sperimentale che ogni anno cambia forma (quest’anno ha quella di un labirinto) in cui la cooperativa coltiva e studia fino a 100 diverse varietà di grano, locali e provenienti da altri territori.

Oltre alla Biblioteca, c’è il Mulino a pietra in cui la cooperativa produce, con il metodo della macinazione a pietra, farine di alta qualità in grado di preservare le qualità organolettiche del grano.

In mezzo c’è il sistema Monte Frumentario, un sistema mutualistico di produzione e relazione che si praticava già nell’800 e che viene riproposto. La cooperativa affida i semi a circa 20 contadini che li coltivano, senza l’utilizzo di sostanze chimiche, su campi che si estendono in totale per circa 30 ettari. Al termine del raccolto, la cooperativa compra da questi contadini fino al 70% del grano, la restante parte rimane a loro che possono così “mangiarsi il proprio pane”. Ecco che, in questo sistema, “i contadini tornano ad essere protagonisti, ritrovano la loro capacità critica”. I circa 600/700 quintali di grano che ogni anno la cooperativa con questo sistema raccoglie vengono poi trasformati in farine di grano tenero, duro e farro vendute a ristoratori e commercianti della zona.

Tra qualche settimana, la filiera acquisisce un pezzettino in più: la cooperativa, infatti, apre un biscottificio denominato “Stelle Fragranti”, realizzato in un mulino ristrutturato nella vicina Montecorvino Novella, in cui trasformare le farine in biscotti e in cui sviluppare percorsi di inserimento lavorativo per persone con disturbi mentali.

Riaprire un mulino in un paese di 1900 abitanti nel Mezzogiorno, in territori rurali ai margini dello sviluppo economico, è una sfida estrema – conclude Antonio – Perché lo facciamo? Perché siamo noi il grano. Letteralmente. Non in senso bucolico, quello proprio non ci interessa, ma in senso vero. Abbiamo recuperato saperi importanti che sarebbero stati destinati all’oblio e li abbiamo riportati nella modernità senza idealizzarli o per puro marketing”. Ma vivendoli e praticandoli fino in fondo, insieme. Nel segno della resilienza. Con rispetto per la terra e per le persone. 

Scopri di più su www.montefrumentario.it