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Dentro la Brick’s Room di Cascina Oremo 

“Con i Lego costruiamo relazioni, per tutti”. Dai ragazzi con autismo alle aziende.

C’è uno spazio a Cascina Oremo dove grandi e piccoli, con o senza disabilità, si allenano a costruire relazioni. È la Brick’s Room, una stanza dedicata ai mattoncini LEGO, gestita dalla Cooperativa Domus Laetitiae all’interno del nuovo polo destinato ad apprendimento, sport, orientamento e inclusione recentemente aperto a Biella dal Consorzio Sociale Il Filo da Tessere. Uno spazio nato all’interno della Cooperativa e trasferito a Cascina Oremo, che ospita innanzitutto gruppi di adolescenti con problematiche dello spettro autistico, ma che ha le potenzialità e l’ambizione di coinvolgere tutti.  

“Lo spazio Lego – comincia Michela Braga, psicologa, responsabile de La Casa per l’Autismo e referente di psicotecnologie per la Cooperativa Domus Laetitiae – è nato all’interno dei servizi di Casa Autismo. Con operatori appositamente formati Play included (realtà che insieme alla LEGO Foundation ha sviluppato una specifica metodologia per l’utilizzo dei LEGO a fini terapeutici, ndr) abbiamo costituito due gruppi: uno con bambini della scuola primaria, uno con ragazzi della secondaria di primo e secondo grado. Costruendo con i mattoncini e utilizzando i metodi appresi, abbiamo lavorato sulle abilità sociali dei partecipanti, sulla condivisione di un’attività, sullo scambio dei ruoli, sulla gestione dei disaccordi. La sperimentazione è andata benissimo e abbiamo deciso di continuare”.  

Il laboratorio LEGO, dunque, si è spostato da La Casa per l’Autismo a Cascina Oremo ed è diventato uno spazio dedicato in un contesto meno protetto. Una stanza modulabile, funzionale per attività a piccoli gruppi, dotata di tavoli e sedie, di armadiature a tema, di spazi espositivi dove posizionare le creazioni, di set con istruzioni e pezzi per il free style. “L’attività con i LEGO – spiega la psicologa di Domus Laetitiae – è un’occasione anche per lavorare sulle autonomie. Nei gruppi condividiamo la disponibilità di un budget per acquistare nuovi set e con i ragazzi guardiamo i cataloghi e programmiamo gli acquisti”.  

Ma perché i mattoncini fanno così bene?

“Perché si fa leva innanzitutto sul piacere del gioco, una passione che spesso è condivisa in partenza – commenta Michela Braga – Gli operatori, in maniera non esplicita, ma strutturata, lavorano sugli scambi comunicativi e interattivi, in tutte le fasi dell’attività: dall’approccio ai cataloghi alla costruzione in gruppo di set con la definizione dei diversi ruoli (ingegnere, fornitore di pezzi, costruttore), dalla costruzione libera al riordino dello spazio”.  

I ragazzi di Casa Autismo continuano a frequentare la stanza a Cascina Oremo, tutte le settimane per due ore, ma la Brick’s Room si è aperta anche ad altri. “Stiamo allargando la proposta anche a ragazzi che non hanno diagnosi di autismo, ma difficoltà relazionali – continua la psicologa di Domus LaetitiaeE a breve attiveremo dei laboratori per le classi, ne abbiamo già nove tra primarie e secondarie. In più, ci sono gli eventi aperti al territorio che, quando li realizziamo, vanno sempre sold out. In queste occasioni, si vede quanto la Brick’s Room sia un grande luogo di inclusione, anche tra generazioni. Ci sono i ragazzi con autismo che, da esperti, fanno da mentori a chi entra e gli adulti che si mettono a giocare con i bambini”. 

“Essere dentro Cascina Oremo – conclude Michela Braga – è una grande opportunità per aprirsi a nuovi destinatari e a nuove prospettive. Ad esempio, stiamo progettando una pista di sviluppo della nostra attività mettendo insieme LEGO e psicotecnologie e stiamo verificando la possibilità di utilizzare la metodologia dei mattoncini per attività di team building da proporre alle aziende intercettate dai servizi al lavoro del Consorzio”. 

Lo spazio dedicato ai mattoncini è solo uno dei servizi di Cascina Oremo che ospita ambienti di apprendimento attivo e crescita personale da 0 a 18 anni (e oltre), percorsi di orientamento ed educazione alla scelta, sport per persone con e senza disabilità e percorsi specializzati di valutazione, apprendimento, consulenza educativa e supporto psicologico su disabilità ed età evolutiva.

Cascina Oremo è un progetto finanziato da Fondazione Cassa di Risparmio di Biella e selezionato da Impresa Sociale Con I Bambini nell’ambito del Fondo per il Contrasto alla Povertà Educativa Minorile, che coinvolge Consorzio Il Filo da Tessere e le Cooperative Tantintenti, Sportivamente e Domus Laetitiae. Un polo innovativo, luogo di sviluppo educativo, sociale, culturale, del benessere e dell’apprendimento. Un punto di riferimento di chi crede nell’importanza di una comunità educante che sperimenta e si innova. Uno spazio generativo per le persone e con le persone.  

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Alessio, un data analyst al SEOC

Nel terzo settore non esiste rendicontazione senza al centro le persone

A. Labardi

Un po’ data analyst. Un po’ operatore territoriale nel Piano integrato urbano Torino Cambia.

Alessio Labardi ha 29 anni, una laurea magistrale in Cooperazione internazionale e lavora alla Cooperativa Giuliano Accomazzi di Torino. Come primo lavoro si è occupato per una società finanziaria di compliance e di gestione della qualità. Poi è passato al mondo della cooperazione con un alto apprendistato che gli consente di lavorare e di frequentare il Master di primo livello in Green & Sustainability Manager dell’Università degli Studi di Torino.

Quello che faccio in cooperativa – racconta nel presentarsi – è raccogliere il lavoro che viene fatto da altri sul territorio per sistematizzarlo e migliorarlo dove possibile. Cerco di fornire quegli strumenti che non siano un peso e che possano restituire informazioni preziose per migliorare la nostra azione. Ormai oggi, se non ti occupi dei dati, i dati si occuperanno di te. Questo vale anche per le cooperative”.

Alessio è uno dei 300 partecipanti del SEOC a Todi. L’ha frequentato per la prima volta, accompagnato da altri tre colleghi della cooperativa. “Una bella esperienza, a partire dal viaggio – commenta Alessio – Un ambiente piacevole e un clima informale”.

Lo speech motivazionale di Mauro Berruto, deputato della Repubblica Italiana e Head Coach della nazionale italiana maschile pallavolo (2010/15) è uno degli interventi che lo ha colpito di più. Un altro momento significativo è stato il dibattito How soon is now? tra giovani cooperatori e rappresentanti delle Fondazioni. Inevitabile l’interesse per il Fireside Chat dal titolo Data Leading Relationships, appuntamento dedicato ai dati con Jane Maigua, Fondatrice e Managing Director di Exotic e Edoardo Calia, vice direttore della Fondazione Links. “Un dato non è mai dato oggettivo – la restituzione del giovane cooperatore della Accomazzi – Dipende da come si prende, da come lo si elabora, da come lo si visualizza. Sentire ridire e condividere questa convinzione, che già conoscevo e facevo mia, è stato bello. Nel terzo settore non esiste rendicontazione senza al centro le persone”. 

Come caso studio ha approcciato quello di Molti Volti, impresa sociale con sede a Palermo. “Attraverso il design thinking e il design model – racconta Alessio – abbiamo affrontato il tema della gestione del fallimento, arrivando a proporre delle linee guida come strumento per darsi una struttura. Ho capito e condiviso quanto sia importante ciò che spesso viene percepito come burocrazia. E tornando a casa, mi sono ripromesso di lavorare al manuale della qualità e alla gestione di procedure per renderle sempre più serene ed efficaci”. 

“È come nei videogiochi, quando sblocchi le mappe – conclude – Con il SEOC ho avuto un ampliamento della mia conoscenza e della mia visione sul mondo della cooperazione e sulla cooperativa. E poi, vedere tanti giovani con tanta voglia e tante idee mi ha fatto effetto: allora le cose che sogniamo di fare sono davvero fattibili!”. 

In copertiva illustrazione di Silvio Boselli x SEOC 2023

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Welfare in piattaforma, c’è spazio per le cooperative

“Agire il cambiamento anziché subirlo” 

Ivana Pais

“In rete in Italia è ancora più facile fare la spesa piuttosto che trovare una babysitter. Di spazi per il welfare ce ne sono tanti e vanno riempiti”. Ivana Pais è docente di Sociologia economica alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, direttrice del Centro di ricerca TRAILab (Transformative Actions Interdisciplinary Laboratory) e principal investigator di We Plat – Welfare system in the age of platforms. Un progetto del progetto sulle piattaforme digitali di welfare finanziato da Fondazione Cariplo con capofila l’Università Cattolica del Sacro Cuore e partner l’Università di Padova, l’agenzia community design Collaboriamo e il nostro consorzio CGM.

Il quaderno della ricerca, a cura di Ivana Pais e del nostro open innovation manager Flaviano Zandonai, realizzato in collaborazione con Percorsi di Secondo Welfare, è già stato presentato ed è disponibile on-line (scarica qui).

Ma che cosa dice alle cooperative questo importante studio? Innanzitutto, restituisce una fotografia delle piattaforme digitali di welfare sul territorio nazionale: sono 137.

59 operano nel settore della salute, 10 in quello dell’educazione e della cura dell’infanzia, 10 nell’assistenza sociosanitaria e 58 sono multisettoriali. Ci sono piattaforme di welfare aziendale, di welfare digitale, che nascono e operano in ambito strettamente digitale, e di welfare territoriale, che mettono insieme enti locali e terzo settore.

“Un dato inatteso dello studio? – esordisce Ivana Pais – Ci aspettavamo più provider di welfare aziendale. Avevamo l’aspettativa che il welfare aziendale potesse essere il precursore delle piattaforme di welfare e invece in rete i servizi alla persona sono ancora pochi e il matching tra domanda e offerta è scarso. Questo può essere legato al fatto che i lavoratori hanno budget ancora limitati a disposizione per il welfare aziendale e che è più pratico acquistare beni di consumo rispetto a servizi”.

Una carenza che lascia molto spazio alle imprese sociali, sia in termini di diffusione dei propri servizi, sia in termini di analisi di bisogni, sia in termini di offerta di veri e propri piani capaci di incidere positivamente sulla qualità della vita delle persone e dei contesti in cui esse vivono e lavorano. “L’altra sorpresa è stato il boom delle piattaforme di welfare digitale e in particolare di quelle che erogano servizi on-line di consulenza psicologica – continua la professoressa dell’Università Cattolica – Mentre rispetto alle piattaforme di welfare territoriale, che hanno la grande potenzialità di aggregare realtà e servizi, pubblici e privati, è emersa la tendenza a riportare le logiche tradizionali in piattaforma, invece che sfruttare lo strumento per una vera e propria trasformazione”.

I margini per uno sviluppo del welfare in piattaforma sono dunque altissimi con prospettive molto interessanti rispetto ad esempio all’ibridazione e all’allargamento dei beneficiari, al ripensamento dei modelli organizzativi, alla certificazione della qualità dei fornitori, alla creazione di comunità non solo tra professionisti, ma anche tra clienti o pazienti in una logica peer to peer, alla ibridazione tra le diverse tipologie di piattaforme, all’implementazione di sistemi reputazionali, ossia di valutazione.

“In generale l’interesse da parte della cooperazione alle piattaforme digitali è forte, ma è altrettanto forte la resistenza, talvolta legittima – prosegue Ivana Pais – Le piattaforme rendono evidente e aumentano le complessità e occorre trovare quelle modalità che consentano di non perdere gli elementi distintivi in termini di cura”. A partire da quegli “eroi quotidiani dell’innovazione” che ci sono e vanno accompagnati. “Da questo punto di vista – commenta la docente – welfareX è l’unica che ha attivato una comunità di welfare manager che sui territori si occupano della piattaforma. Questo fa la differenza: non lasciare da soli questi ‘eroi’, creare occasioni di confronto e di crescita e collocare il loro lavoro in un progetto più ampio e di prospettiva”.  

“Il welfare si sta trasformando – è la conclusione di Ivana Pais – Le persone cercano in rete risposte ai loro bisogni e se non trovano il terzo settore, trovano altro. Occorre stare dentro la trasformazione e governarla. Questa è la sfida: agire il cambiamento anziché subirlo”. 

Ivana Pais
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A Casa Milo i ragazzi con disabilità si allenano a vivere da soli

Pietro lo dice subito: “Perché i miei fratelli sì e io no?”. Martina ha le idee chiare: “In futuro mi vedo in una casa con due mie amiche”. Si respira un desiderio comune di autonomia a Casa Milo, una casa a tutti gli effetti nella zona nord di Milano, gestita dalla Cooperativa Cascina Biblioteca, in cui ragazzi con disabilità sperimentano la vita quotidiana fuori dalla famiglia. Imparano a prendere la metropolitana, a fare la spesa, a pagare le bollette, a rifarsi il letto, a curare la propria igiene personale, a fare la lavatrice. Tutto in un contesto abitativo vero, ma protetto, all’interno di un percorso graduale, su misura e condiviso con le famiglie e con altri ragazzi desiderosi di imparare a “vivere fuori casa”. 

“Durante la pandemia – racconta Pietro, 27 anni, ex residente di Casa Milo – mi sono chiesto cosa volessi fare nella vita. Avevo il desiderio di diventare autonomo e di andare a vivere fuori casa come i miei fratelli. Con l’assistente sociale abbiamo deciso di sperimentare per un anno Casa Milo. Qui ho conosciuto persone che mi hanno aiutato e ho imparato tante cose. Ora vivo a Casa Montemartini (una micro-comunità che unisce occupazione lavorativa e autosufficienza domestica, ndr) con altre cinque persone e sogno di trasferirmi a Firenze con la mia ragazza”. Martina, invece, 23 anni, figlia unica e un diploma in Servizi sociosanitari, è arrivata a Casa Milo attraverso lo Sfa, il Servizio diurno di Formazione all’Autonomia di Cascina Biblioteca. “Ho iniziato a fare la prima notte a maggio – racconta – Poi la seconda, poi sono stata un’intera settimana. Nel frattempo, ho mantenuto tutte le mie attività, compresi lo sport e il teatro. Casa Milo è un’alternativa vera e propria alla casa. Ho imparato a vivere con persone che prima non conoscevo, a condividere gli spazi e a rifare bene il mio letto”. 


L’ingresso a Casa Milo avviene su iniziativa della famiglia o su proposta dei servizi territoriali o della cooperativa, e per la maggior parte dei casi grazie al finanziamento della legge 112 del ‘Dopo di noi’, attraverso i voucher di ‘Accompagnamento all’autonomia abitativa’. Si tratta di un ingresso graduale: si parte partecipando a quattro incontri a tema sull’autonomia abitativa che si svolgono in gruppo e con un operatore, poi si comincia a frequentare la casa per alcuni momenti pomeridiani e serali, fino ad arrivare al pernottamento. Ad aiutare nella gestione della Casa, un monitor touch screen appeso in soggiorno che consente di condividere tra ragazzi, operatori, coordinatori e famiglie presenze e attività, realizzate e da realizzare. “Quando ci dicono: ‘Ma come, oggi avete solo fatto la spesa?’ ci viene da sorridere – spiega Jennifer, educatrice di Casa Milo – Già, perché per i ragazzi di Casa Milo anche le faccende quotidiane più scontate possono far emergere difficoltà e insicurezze. Qui, con l’aiuto degli educatori, imparano ad affrontarle non perché qualcuno le fa al posto loro, ma perché loro che sono i protagonisti costruiscono routine e conquistano autonomie. E allora sì, con soddisfazione, rispondiamo che abbiamo solo fatto la spesa!”.

La formula ideale sperimentata in questi anni è quella di una settimana in Casa Milo, dal lunedì al venerdì, per una volta al mese: consente l’uscita dalla famiglia in modo graduale e l’osservazione da parte degli operatori e delle famiglie di risorse ed esigenze personali per poter poi trovare i contesti abitativi migliori per il futuro. “La casa in cui vivo adesso – dice Pietro – è diventata la mia casa: si ride, si condivide, si litiga, come in tutte le case. La cosa più difficile che ho imparato a Casa Milo? A fare i conti per la spesa”. Casa Milo è inserita in un contesto di social housing con 300 appartamenti, sette realtà del terzo settore attive e tanti momenti di scambio e di condivisione. “Durante un aperitivo con i vicini di casa – ricorda Pietro – ho raccontato il mio percorso a Casa Milo e tutti sono rimasti molto contenti. Ci tengo molto a condividere la mia esperienza perché è un bell’esempio. Perché voglio dimostrare che l’autonomia è questa e che è un’autonomia possibile”. 

Fondamentale per questi percorsi il rapporto con le famiglie. “La famiglia può condizionare in positivo o negativo il percorso di autonomia – continua Jennifer – Importante per noi è condividere con i genitori la linea educativa, dare riscontri su come sta andando l’esperienza, ricevere feedback sui comportamenti dei ragazzi a casa, creare occasioni di incontro e di condivisione in gruppo dedicati ai genitori”. “Casa Milo – conclude Maria Malacrinò, la coordinatrice – non è né una vacanza, né uno sradicamento. È una palestra in cui i ragazzi e le famiglie si allenano per un obiettivo grande, un obiettivo di futuro”. 

Il progetto Casa Milo è realizzato dalla Cooperativa Cascina Biblioteca grazie al contributo di Fondazione Cariplo ed è inserito all’interno del progetto “Scambi Vitali” con capofila Consorzio Sir.

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I giovani al SEOC: “Coinvolgeteci non per riempire poltrone, ma per ascoltare la nostra voce”

Il suo intervento è stato uno di quelli più applauditi al panel How Soon is Now? organizzato al SEOC – Social Enterprise Open Camp di Todi e ispirato al manifesto Future Chair, la dichiarazione di impegno delle Fondazioni e degli Enti Filantropici per il dialogo intergenerazionale.

Lei è Claudia Pinessi, Eu project manager junior e junior researcher del Consorzio nazionale Idee in Rete e Innovation Consultant del Consorzio Cosm con sedi a Udine e Trieste. Nel 2023 è entrata a far parte del team di organizzazione della Biennale della Prossimità, in programma a ottobre 2024 a Napoli. Ha 27 anni ed è alla sua prima esperienza lavorativa attinente ai suoi studi, una laurea in Giurisprudenza e un master in Gestione delle imprese sociali. In mezzo, un’esperienza di volontariato in legge e diritti umani in Sudafrica.

“Quello è stato un momento della mia vita spartiacque – racconta Claudia – Ho capito che nel percorso di Giurisprudenza c’era poco di quello che cercavo. Mi sono laureata in fretta con una tesi sulla responsabilità sociale delle imprese in Ghana e mi sono iscritta al master nell’ambito del terzo settore”.

Ora ha un contratto di apprendistato di tre anni e tanto entusiasmo da mettere in gioco nella cooperazione. Quest’anno ha partecipato al suo primo SEOC. “Devo essere sincera: non avevo un’aspettativa precisa in partenza – dice – Poi, però, sono rimasta entusiasta. Mi è piaciuto molto. Ho trovato tanta sostanza e anche tanta testimonianza, non solo professionale ma personale. Ho conosciuto persone interessanti”.

Il suo SEOC, come anche il suo intervento, è stato focalizzato sul dialogo intergenerazionale. Claudia, infatti, è arrivata a Todi con una sua collega senior. “Nel nostro consorzio, e di questo vado fiera, stiamo affrontando un cambio generazionale importante – continua Claudia – Spingono molto sul coinvolgimento di figure giovani e anche la mia e la nostra partecipazione al SEOC è stata una conferma”.

Ma cosa serve perché i giovani siano davvero coinvolti nelle fondazioni e nel mondo della cooperazione? Claudia ha una risposta molto chiara: “Aprano le porte ai giovani non perché si sentono in dovere, ma perché si accorgono che manca qualcosa. I giovani non entrano in questo ambito per riempire poltrone, ma per far sentire la propria voce. Certo, non sono supereroi e hanno bisogno di essere accompagnati, di calare le idee nella realtà, rendendole attuabili nella complessità senza che perdano vigore, e in questo le figure senior sono fondamentali”. 

Lo sguardo sul futuro è una caratteristica dei cooperatori junior, assolutamente da cogliere. “Per questioni anche puramente anagrafiche – dice Claudia – noi giovani abbiamo una visione diversa sul futuro, ma direi anche sul presente. Non abbiamo quella stanchezza e quella disillusione che a volte caratterizzano chi lavora da più tempo”.

Sicuramente l’aspetto della valorizzazione, anche economica, della professione sociale è una leva anche per i giovani. “Il nostro lavoro – dice la project manager – ha un impatto grandissimo sulla vita delle persone e spesso è poco valorizzato, anche dal punto di vista economico. I giovani hanno tanta motivazione, ma a volte le condizioni lavorative scoraggiano e su questo occorre sicuramente fare passi avanti. Non bisogna per forza soffrire o fare sacrifici per lavorare nel terzo settore!”. 

Tornando al SEOC, Claudia non ha dubbi: tornerà nel 2024. “Sono stati tre giorni di bellezza – conclude Claudia – Porto a casa la convinzione che ognuno di noi, giovane e meno giovane, può fare molto, che dobbiamo pensare in grande, senza accontentarci di fare solo il nostro pezzettino. Abbiamo una responsabilità enorme che dobbiamo cogliere, anche rispetto al dialogo intergenerazionale. Perché non è vero che, se si è sempre fatto cosi, ora non si debba cambiare. Al prossimo SEOC? Ci sarò e mi aspetto che si prosegua sul tema del dialogo tra generazioni”. 

Foto in copertina Francesco Margutti