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Fili tesi, in un podcast trent’anni di risposte ai bisogni inascoltati

A trent’anni dalla nascita della cooperativa Spazio Aperto Servizi arriva “Fili Tesi”una serie audio di Chora Media che racconta le storie di chi grazie a questa cooperativa, ha trovato lavoro, una nuova famiglia, una casa o un ambiente autentico in cui esprimere la propria identità. Sullo sfondo, Milano e i suoi cambiamenti. 

30 anni. In un podcast. La nostra cooperativa socia Spazio Aperto Servizi di Milano ha celebrato i suoi 30 anni di attività, di risposte ai bisogni di tutte le persone nelle diverse fasi della loro vita, pubblicando con Chora Media ‘Fili tesi’, un podcast raccontato da Giuseppe Fiorello. Quattro episodi che intrecciano storie di chi grazie a Spazio Aperto Servizi, ha trovato lavoro, una nuova famiglia, una casa o un ambiente autentico in cui esprimere la propria identità. Sullo sfondo, Milano e i suoi cambiamenti. Il tutto, attraverso voci, testimonianze, letture del passato e del presente.

E allora c’è Marayah, giovane transgender fuggita dalle violenze familiari dopo un outing traumatico; Elisabetta, che, allontanata dalla madre naturale, ha scoperto una nuova famiglia e un ambiente sereno in cui crescere; e Manuela, mamma di Francesco, pioniera nella battaglia per l’autonomia delle persone con disabilità. Persone e famiglie spezzate e poi ricomposte, grazie ai fili tesi da chi ogni giorno sceglie di ascoltare le richieste d’aiuto di coloro che vengono ignorati.

“Il podcast – ha commentato Maria Grazia Campese, presidente di Spazio Aperto Servizi – è uno strumento potente che può arrivare a tutte e tutti, con un linguaggio forte non solo per “addetti ai lavori”. Abbiamo cercato di condensare in quattro puntate una storia corale di tanti anni e tante persone, questo racconto è solo rappresentativo di un legame profondo della nostra organizzazione con la città di Milano”, .

“Sono onorato di partecipare a questo progetto e orgoglioso di fare da tramite, grazie al mio mestiere, per raccontare storie che mettono al centro l’essere umano in tutta la sua complessità e fragilità – ha dichiarato Giuseppe Fiorello – “Fili Tesi” racconta anche il percorso formativo di un gruppo di ragazzi e ragazze che hanno donato il loro tempo, le loro forze e la loro visione a chi ne aveva fortemente bisogno. Sono sempre stato convinto che i visionari come loro, sono e saranno sempre necessari affinché la durezza della vita possa essere attraversata con più coraggio”.

“Questo anniversario speciale è un traguardo di cui essere fieri, ma al tempo stesso è un nuovo inizio, con nuove sfide e responsabilità”, la conclusione di Maria Grazia Campese.

“Fili Tesi” è sulle principali piattaforme audio:
Spreaker – ASCOLTA QUI
Spotify – ASCOLTA QUI
Apple Podcast – ASCOLTA QUI
Google Podcasts – ASCOLTA QUI

Un podcast di Chora Media, scritto da Antonella Serrecchia con il supporto redazionale di Valentina Piva e raccontato da Giuseppe Fiorello. Il fonico di studio è Lucrezia Marcelli. La post produzione e il montaggio sono di Francesco Ferrari di Frigo Studio. La supervisione del suono e della musica è di Luca Micheli. La senior producer è Anna Nenna. La cura editoriale è di Graziano Nani. 

Sopra la copertina del podcast. Nella foto in evidenza Giuseppe Fiorello, Maria Grazia Campese e Mario Calabrese di Chira Media (Ph. di Francesca Panaioli)

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Over65, un bilocale al Villaggio Novoli di Firenze “per non vivere da soli”

Villaggio Novoli è un progetto di senior housing promosso da Consorzio Fabrica e Consorzio Co&So. 37 appartenenti in un ex condominio per anni occupato abusivamente e ora completamente riqualificato per offrire una soluzione abitativa a misura di anziani con spazi comuni, attività di socializzazione, presidio educativo e servizi a richiesta come cure infermieristiche, pasti a domicilio, lavanderia e trasporti. 

Graziano ha 83 anni ed ha appena firmato il contratto di affitto per un bilocale al Villaggio Novoli, il progetto di senior housing promosso da Consorzio Fabrica e Consorzio Co&So a Firenze, nel quartiere Cinque. 37 appartenenti in un ex condominio per anni occupato abusivamente e ora completamente riqualificato per offrire una soluzione abitativa a misura di over65. Bilocali e trilocali indipendenti, senza barriere architettoniche, completamente ristrutturati e sicuri, con spazi comuni per attività di socializzazione, un operatore a disposizione in loco e servizi attivabili a richiesta, dalle cure infermieristiche, ai pasti a domicilio, alla lavanderia, fino ai trasporti. “Il progetto mi è piaciuto subito – il commento di GrazianoPotevo affittare una casa ‘normale’ ma sarei stato solo. Invece qui sono contento di abitare in un contesto con altre persone”. Per di più, in una zona molto appetibile. “Io ho lavorato in una vetreria qui vicino – racconta – Sono sempre stato appassionato di elettronica e in questo quartiere c’erano dei magazzini in cui venivo spesso. Poi adesso ci passa anche la tranvia quindi è anche ben collegata”. Graziano entrerà al Villaggio Novoli a marzo. La cucina è già installata, mentre si sta organizzando per il mobilio. “Non vedo l’ora – confessa – Ho già venduto la mia casa di proprietà dopo che mi sono separato dalla moglie e ora sto temporaneamente in albergo”.

Su 37 appartamenti sono già stati firmati 10 contratti di affitto e altri 7 sono in corso di discussione. “La risposta è stata buona – il commento di Lorenzo Terzani, presidente del Consorzio Fabrica – Questo è un progetto che è nato tempo fa per offrire servizi agli anziani, diversi rispetto a quelli tradizionali. Nel 2011 abbiamo anche fatto un’indagine di mercato, poi abbiamo fatto molta fatica a trovare la soluzione immobiliare giusta in un mercato, quello di Firenze, difficile. Alla fine, abbiamo avuto questa occasione e abbiamo investito, sfruttando anche il bonus 110. Ora siamo soddisfatti e speriamo che il progetto possa decollare”.

Il progetto è sostenuto da Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze che contribuisce ad abbassare gli affitti da 200 a 400 euro al mese in base al reddito dei residenti, e fa parte del più ampio ViviSmart, il sistema integrato di servizi per Over65 di Consorzio Co&So e Consorzio Fabrica. “Le persone o le coppie che desiderano abitare al Villaggio Novali hanno molte aspettative. Sono persone o nuclei molto soli e desiderano far parte di una rete per il loro ‘invecchiamento attivo’”.

Il Villaggio Novoli, proprio nell’ambito di ViviSmart, sarà anche punto di partenza per trasferire il modello del social housing a domicilio, coniugando tecnologia e presenza. “Partiremo con una sperimentazione su 50 anziani. Si tratta di un modello di presa in carico degli anziani innovativo che arriva a casa delle persone, una sorta di Villaggio virtuale di cura e di tecnologia”. Nel Villaggio Novoli, c’è anche spazio per il turismo over: non solo perché alcuni appartamenti potrebbero essere messi a disposizione di turisti anziani che visitano Firenze, ma perché da qui nasceranno proposte di pacchetti turistici e attività culturali a misura di anziano rispetto a confort, trasporti e salute.

“Il nostro obiettivo? – conclude Terzani – Fare in modo che gli anziani possano stare bene”. Ecco, a Villaggio Novali questo sarà possibile.

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Mariella e Emanuele: “Ora viviamo insieme e siamo felici”

Vi raccontiamo il percorso di autonomia abitativa (e non solo) di Mariella e Emanuele, realizzato con il supporto delle famiglie e della Cooperativa Esserci di Torino. “Il cruccio di molte famiglie è: cosa faranno i nostri ragazzi quando non ci saremo più? Occorre però cercare di lavorare non sul dopo di noi, ma sul durante noi”.

“Siamo felici”. Il succo della storia di Mariella e Emanuele, coppia protagonista di un percorso sull’abitare della Cooperativa Esserci di Torino, è in queste due parole. Lei ha 50 anni ed è originaria di Matera, trasferita a Torino nel 2000, dagli zii, dopo la morte di entrambi i genitori. Frequentatrice del gruppo Aladino, spazio per il tempo libero, gestito da una Associazione di volontariato in sinergia con la Cooperativa Esserci, dedicato alle persone con disabilità intellettiva e/o fisica che vogliono condividere attività e laboratori. “Ad Aladino ho conosciuto Emanuele, ma lui all’epoca stava con un’altra”, comincia Mariella. Proprio da Aladino comincia il percorso di autonomia di Mariella. Prima, con l’inserimento lavorativo in una scuola materna come addetta alle pulizie. Poi, con un progetto di palestra abitativa per imparare a vivere da sola. Così, Mariella, insieme ad altre persone con disabilità intellettiva, ogni settimana si allena a fare la spesa, cucinare, gestire i soldi, tenere in ordine la casa. Inizia a trascorrere qualche weekend fuori casa. “All’inizio avevo paura del cambiamento”, confessa. Il percorso di autonomia continua tra alti e bassi e per due anni Mariella torna ad abitare con gli zii. “Il cruccio di molte famiglie è: cosa faranno i nostri ragazzi quando non ci saremo più? – racconta Francesco Patrucco, coordinatore di Esserci – Noi però cerchiamo di lavorare non sul dopo di noi, ma sul durante noi, creando contesti e percorsi che siano vere e proprie palestre abitative, con il coinvolgimento indispensabile delle persone interessate, delle famiglie e della rete territoriale”.

Nel 2020 Mariella si rimette di nuovo in gioco in un nuovo progetto di autonomia, questa volta in un monolocale solo per lei all’interno del contesto di Housing&Co della Cooperativa. “I primi tempi è stata dura. Eravamo ancora in periodo di pandemia e soffrivo molto la solitudine, ma poi ce l’ho fatta”, commenta. Nel frattempo, Emanuele, nato e cresciuto a Torino, addetto alle pulizie, in casa con i genitori, lascia la compagna e comincia la storia con Mariella. Parte un progetto di vita di coppia che coinvolge i due fidanzati e le rispettive famiglie. Emanuele comincia a trascorrere qualche weekend nel monolocale. “Eravamo stretti, ma l’esperienza è andata bene”, dice lui. Dopo quattro mesi, i due si trasferiscono in un bilocale sempre nel contesto di housing sociale e iniziano a vivere insieme 7 giorni su 7. “La convivenza non è sempre facile. Vuol dire adattarsi alle esigenze dell’altro”, il commento di Mariella e Emanuele. L’anno scorso, i due fidanzati escono da Housing&Co e si trasferiscono in una casa di proprietà della nonna di Emanuele in attesa di finire i lavori nell’appartamento che i genitori gli hanno acquistato e di spostarsi lì definitivamente insieme a Mariella. “Poi basta traslochi”, scherzano i due.

“A chi desidera uscire di casa, diciamo provateci. Occorre avere il coraggio di giocarsela, anche affrontando dubbi e paure che nascono nelle persone coinvolte e nelle famiglie. Le nostre adesso sono contente e ci supportano. Andiamo sempre là a pranzo alla domenica…”. Anche se il percorso di autonomia di Mariella ed Emanuele ha raggiunto un livello avanzato, il lavoro della Cooperativa Esserci continua. “Proseguiamo a monitorare Mariella ed Emanuele e a tenere il rapporto con le famiglie – conclude Francesco – Come ho detto anche a loro, anche le persone più attrezzate possono vivere difficoltà nel gestire le relazioni di coppia, dunque occorre lavorare ancora. E’ come una pianta che deve continuare ad essere annaffiata, il giusto, né troppo, né troppo poco. Mariella ed Emanuele sono stati bravi a cogliere al volo il treno per l’autonomia, noi li abbiamo aiutati a stare bene, ad essere felici, ad avere una prospettiva. Questa è la più grande soddisfazione”. 


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Pastorelli, presidente Diesis: “La spinta dell’Europa sull’economia sociale va colta in rete”

“A livello europeo e internazionale c’è una grossa spinta sull’economia sociale. Occorre cogliere l’occasione per far sentire il peso delle cooperative e delle imprese sociali”.

Luca Pastorelli da 30 anni si occupa di cooperative e social economy. Da 20 anni è presidente esecutivo di Diesis, il network delle reti della cooperazione che in 30 paesi, principalmente europei, ma non solo, si occupa di sviluppo dell’economia, dell’imprenditoria e dell’innovazione sociali, e di cui il nostro Consorzio è socio fondatore. “Ho studiato Scienze politiche all’università – si presenta Pastorelli – poi ho lavorato come consulente e formatore di diverse realtà sociali sulla progettazione europea. Lì mi sono accorto della necessità di dotarsi di una strategia e di un sistema di lavoro, affinché le collaborazioni avviate per progetti europei non fossero estemporanee, ma strategiche e continuative. Cgm è stato protagonista di questa iniziativa”.

Diesis è nato nel 1997 e da allora si è sviluppato sia a livello geografico, sia come varietà di interlocutori. La sede principale è a Bruxelles ma Diesis ha uffici in molti paesi del network. “Io dove lavoro? Metà a Bruxelles, metà in Italia e metà in viaggio – commenta il presidente – Oltre ad avere una forte identità nel terzo settore, Diesis ha la caratteristica di essere fortemente legata ai suoi soci nei diversi paesi”. 

L’attività del network è legata principalmente alla progettazione europea: Diesis produce conoscenza attraverso la ricerca e la formazione, e favorisce la creazione di comunità tra reti, strutture di supporto o gruppi di imprese. “La realtà – continua Pastorelli – va più veloce delle istituzioni europee. Nel fare mediazione tra i soci e l’Europa, guardiamo sempre all’innovazione con attenzione ai ‘segnali deboli’ che indicano qualcosa che sta per arrivare. Qualche esempio. Quando 20 anni fa siamo andati nei Balcani ci prendevano per matti, ora quei paesi sono molto vicini ad essere integrati nella Ue. Siamo stati i primi a parlare di piattaforme digitali e blockchain e ad analizzare il ruolo delle imprese sociali nell’industria culturale e creativa. Ora, ad esempio,  ci stiamo occupando delle aree rurali in ambito eco-sociale: il modello di business dell’economia sociale, infatti, è ritenuto interessante per lo sviluppo e il ripopolamento delle aree rurali. E poi il progetto “ baSE” che riunisce 13 paesi sul tema delle competenze: i risultati diventeranno uno standard europeo sul set di competenze dei profili professionali dell’economia sociale”.

Ma quale è la situazione italiana rispetto al riconoscimento dell’economia sociale? “Il nostro paese – conclude Pastorelli – è all’avanguardia per l’ecosistema sociale. Però rispetto ad altri paesi, come Francia e Spagna, su questo tema il livello politico è assente. Basti pensare che nel PNRR non c’è neppure un capitolo dedicato, mentre altri paesi hanno scelto di fare investimenti importanti. Essere nel nostro network, vuol dire far sentire comunque il peso delle imprese sociali italiane a livello europeo, ma anche aiutare un riconoscimento del terzo settore a cascata a livello nazionale e locale. E infine, essere nel network consente di accedere prima ad informazioni fondamentali per compiere scelte strategiche”. 

Luca Pastorelli, Diesis
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Altro che greenwashing. Imprese sociali e sostenibilità

“Siamo già per nostra natura la ’S’ degli SDGs, gli Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile. La sfida è vivere quella ‘S’ con più profondità e innovazione, di essere, a partire dal nostro DNA, il motore del cambiamento“.

Andrea Ripamonti è consigliere del nostro consorzio CGM con delega alla sostenibilità. Con lui abbiamo affrontato il tema della sostenibilità ambientale ed energetica (e non solo), uno dei nostri filoni core su cui a breve potremo condividere importanti novità.

Ma partiamo dal principio: perché una organizzazione di terzo livello come CGM si occupa di questo tema?

“Perché la sostenibilità non è solo un main stream – esordisce Ripamonti – ma è elemento di vera trasformazione e come CGM , come accaduto su altri temi, stimoliamo e accompagniamo il cambiamento, facendo cultura, intercettando grossi player e lavorando sulla programmazione politica, a livello nazionale ed europeo”. Certo, la trasformazione è già nel mercato. “Gli studi – continua il nostro consigliere – ci dicono che il 44%* delle persone è disposto a spendere di più per prodotti ecosostenibili. Il mercato quindi si sta spostando sulla sostenibilità. L’obiettivo è che venga interpretata non come greenwashing, come etichetta, ma come creazione di ecosistemi realmente sostenibili, con impatti sulla comunità. In questo le imprese sociali possono e devono giocare un ruolo da protagoniste”.

In diversi ambiti: dalle forniture agli accordi di programma, dalla governance alla contaminazione con mondi diversi, dalla crescita di competenze al rapporto con le università. Con un focus sulle CER, le comunità energetiche rinnovabili.

“La questione energetica è solo una parte delle CER, piccole e grandi  – spiega Ripamonti – Dentro, c’è tutto l’impatto sociale per cui le nostre cooperative sono forti a livello di servizi, di politiche attive del lavoro, di politiche territoriali. Per questo le CER sono un’occasione per il terzo settore per interpretare la rivoluzione sostenibile”. 

E se nel panorama delle cooperative ci sono già molte realtà che sulla sostenibilità energetica, e non solo, stanno facendo la differenza (60 quelle che come CGM stiamo seguendo sulla transizione verde), ci sono due limiti da superare: il primo legato alla burocrazia (“Una criticità generale che ingabbia le cooperative e non solo in regole complesse e tempi biblici che si traducono in costi e inefficienza”), il secondo più culturale.

“Le imprese sociali – conclude Ripamonti – devono uscire dalla zona di comfort. Su questo come CGM possiamo fare molto, sia sensibilizzando le nostre organizzazioni rispetto alle direzioni del mercato, sia lavorando per orientarlo questo mercato. Un esempio: i criteri ecologici verranno introdotti sempre di più nelle gare dei nostri servizi, anche le grandi imprese si stanno orientando verso fornitori etici, ma le nostre realtà sociali sono pronte?”. 

La risposta deve essere positiva ed è da costruire insieme. 

*Fonte: EY Future Consumer Index, October 2022

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Welfare in piattaforma, c’è spazio per le cooperative

“Agire il cambiamento anziché subirlo” 

Ivana Pais

“In rete in Italia è ancora più facile fare la spesa piuttosto che trovare una babysitter. Di spazi per il welfare ce ne sono tanti e vanno riempiti”. Ivana Pais è docente di Sociologia economica alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, direttrice del Centro di ricerca TRAILab (Transformative Actions Interdisciplinary Laboratory) e principal investigator di We Plat – Welfare system in the age of platforms. Un progetto del progetto sulle piattaforme digitali di welfare finanziato da Fondazione Cariplo con capofila l’Università Cattolica del Sacro Cuore e partner l’Università di Padova, l’agenzia community design Collaboriamo e il nostro consorzio CGM.

Il quaderno della ricerca, a cura di Ivana Pais e del nostro open innovation manager Flaviano Zandonai, realizzato in collaborazione con Percorsi di Secondo Welfare, è già stato presentato ed è disponibile on-line (scarica qui).

Ma che cosa dice alle cooperative questo importante studio? Innanzitutto, restituisce una fotografia delle piattaforme digitali di welfare sul territorio nazionale: sono 137.

59 operano nel settore della salute, 10 in quello dell’educazione e della cura dell’infanzia, 10 nell’assistenza sociosanitaria e 58 sono multisettoriali. Ci sono piattaforme di welfare aziendale, di welfare digitale, che nascono e operano in ambito strettamente digitale, e di welfare territoriale, che mettono insieme enti locali e terzo settore.

“Un dato inatteso dello studio? – esordisce Ivana Pais – Ci aspettavamo più provider di welfare aziendale. Avevamo l’aspettativa che il welfare aziendale potesse essere il precursore delle piattaforme di welfare e invece in rete i servizi alla persona sono ancora pochi e il matching tra domanda e offerta è scarso. Questo può essere legato al fatto che i lavoratori hanno budget ancora limitati a disposizione per il welfare aziendale e che è più pratico acquistare beni di consumo rispetto a servizi”.

Una carenza che lascia molto spazio alle imprese sociali, sia in termini di diffusione dei propri servizi, sia in termini di analisi di bisogni, sia in termini di offerta di veri e propri piani capaci di incidere positivamente sulla qualità della vita delle persone e dei contesti in cui esse vivono e lavorano. “L’altra sorpresa è stato il boom delle piattaforme di welfare digitale e in particolare di quelle che erogano servizi on-line di consulenza psicologica – continua la professoressa dell’Università Cattolica – Mentre rispetto alle piattaforme di welfare territoriale, che hanno la grande potenzialità di aggregare realtà e servizi, pubblici e privati, è emersa la tendenza a riportare le logiche tradizionali in piattaforma, invece che sfruttare lo strumento per una vera e propria trasformazione”.

I margini per uno sviluppo del welfare in piattaforma sono dunque altissimi con prospettive molto interessanti rispetto ad esempio all’ibridazione e all’allargamento dei beneficiari, al ripensamento dei modelli organizzativi, alla certificazione della qualità dei fornitori, alla creazione di comunità non solo tra professionisti, ma anche tra clienti o pazienti in una logica peer to peer, alla ibridazione tra le diverse tipologie di piattaforme, all’implementazione di sistemi reputazionali, ossia di valutazione.

“In generale l’interesse da parte della cooperazione alle piattaforme digitali è forte, ma è altrettanto forte la resistenza, talvolta legittima – prosegue Ivana Pais – Le piattaforme rendono evidente e aumentano le complessità e occorre trovare quelle modalità che consentano di non perdere gli elementi distintivi in termini di cura”. A partire da quegli “eroi quotidiani dell’innovazione” che ci sono e vanno accompagnati. “Da questo punto di vista – commenta la docente – welfareX è l’unica che ha attivato una comunità di welfare manager che sui territori si occupano della piattaforma. Questo fa la differenza: non lasciare da soli questi ‘eroi’, creare occasioni di confronto e di crescita e collocare il loro lavoro in un progetto più ampio e di prospettiva”.  

“Il welfare si sta trasformando – è la conclusione di Ivana Pais – Le persone cercano in rete risposte ai loro bisogni e se non trovano il terzo settore, trovano altro. Occorre stare dentro la trasformazione e governarla. Questa è la sfida: agire il cambiamento anziché subirlo”. 

Ivana Pais
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I giovani al SEOC: “Coinvolgeteci non per riempire poltrone, ma per ascoltare la nostra voce”

Il suo intervento è stato uno di quelli più applauditi al panel How Soon is Now? organizzato al SEOC – Social Enterprise Open Camp di Todi e ispirato al manifesto Future Chair, la dichiarazione di impegno delle Fondazioni e degli Enti Filantropici per il dialogo intergenerazionale.

Lei è Claudia Pinessi, Eu project manager junior e junior researcher del Consorzio nazionale Idee in Rete e Innovation Consultant del Consorzio Cosm con sedi a Udine e Trieste. Nel 2023 è entrata a far parte del team di organizzazione della Biennale della Prossimità, in programma a ottobre 2024 a Napoli. Ha 27 anni ed è alla sua prima esperienza lavorativa attinente ai suoi studi, una laurea in Giurisprudenza e un master in Gestione delle imprese sociali. In mezzo, un’esperienza di volontariato in legge e diritti umani in Sudafrica.

“Quello è stato un momento della mia vita spartiacque – racconta Claudia – Ho capito che nel percorso di Giurisprudenza c’era poco di quello che cercavo. Mi sono laureata in fretta con una tesi sulla responsabilità sociale delle imprese in Ghana e mi sono iscritta al master nell’ambito del terzo settore”.

Ora ha un contratto di apprendistato di tre anni e tanto entusiasmo da mettere in gioco nella cooperazione. Quest’anno ha partecipato al suo primo SEOC. “Devo essere sincera: non avevo un’aspettativa precisa in partenza – dice – Poi, però, sono rimasta entusiasta. Mi è piaciuto molto. Ho trovato tanta sostanza e anche tanta testimonianza, non solo professionale ma personale. Ho conosciuto persone interessanti”.

Il suo SEOC, come anche il suo intervento, è stato focalizzato sul dialogo intergenerazionale. Claudia, infatti, è arrivata a Todi con una sua collega senior. “Nel nostro consorzio, e di questo vado fiera, stiamo affrontando un cambio generazionale importante – continua Claudia – Spingono molto sul coinvolgimento di figure giovani e anche la mia e la nostra partecipazione al SEOC è stata una conferma”.

Ma cosa serve perché i giovani siano davvero coinvolti nelle fondazioni e nel mondo della cooperazione? Claudia ha una risposta molto chiara: “Aprano le porte ai giovani non perché si sentono in dovere, ma perché si accorgono che manca qualcosa. I giovani non entrano in questo ambito per riempire poltrone, ma per far sentire la propria voce. Certo, non sono supereroi e hanno bisogno di essere accompagnati, di calare le idee nella realtà, rendendole attuabili nella complessità senza che perdano vigore, e in questo le figure senior sono fondamentali”. 

Lo sguardo sul futuro è una caratteristica dei cooperatori junior, assolutamente da cogliere. “Per questioni anche puramente anagrafiche – dice Claudia – noi giovani abbiamo una visione diversa sul futuro, ma direi anche sul presente. Non abbiamo quella stanchezza e quella disillusione che a volte caratterizzano chi lavora da più tempo”.

Sicuramente l’aspetto della valorizzazione, anche economica, della professione sociale è una leva anche per i giovani. “Il nostro lavoro – dice la project manager – ha un impatto grandissimo sulla vita delle persone e spesso è poco valorizzato, anche dal punto di vista economico. I giovani hanno tanta motivazione, ma a volte le condizioni lavorative scoraggiano e su questo occorre sicuramente fare passi avanti. Non bisogna per forza soffrire o fare sacrifici per lavorare nel terzo settore!”. 

Tornando al SEOC, Claudia non ha dubbi: tornerà nel 2024. “Sono stati tre giorni di bellezza – conclude Claudia – Porto a casa la convinzione che ognuno di noi, giovane e meno giovane, può fare molto, che dobbiamo pensare in grande, senza accontentarci di fare solo il nostro pezzettino. Abbiamo una responsabilità enorme che dobbiamo cogliere, anche rispetto al dialogo intergenerazionale. Perché non è vero che, se si è sempre fatto cosi, ora non si debba cambiare. Al prossimo SEOC? Ci sarò e mi aspetto che si prosegua sul tema del dialogo tra generazioni”. 

Foto in copertina Francesco Margutti

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Cooperative contro il gender gap, ne parliamo con Sofia Borri

Portate la parità in ambiti strategici come l’educazione

“La parità di genere non è solo un tema di diritti e di giustizia, ma di sviluppo. E non interessa solo le donne, ma tutti, uomini compresi”. Accento milanese, ma origini argentine, mamma di due bambine, Sofia Borri è la Presidente di Piano C, realtà nata a Milano come primo coworking con cobaby d’Italia e ora ‘factory’ nazionale che si occupa di riprogettazione professionale, formazione ed empowerment femminile. Con una laurea in Filosofia e Antropologia e un master in Management delle imprese sociali, Sofia è speaker e formatrice sui temi del gender gap, della rottura degli stereotipi e della sinergia vita-lavoro. Con CGM collabora per il percorso che coinvolge molte cooperative sulla certificazione per la parità di genere UNI PdR 125:2022“Con Piano C – spiega la presidente – incontriamo molte donne che sono formate, qualificate e motivate, ma si trovano fuori dal mercato del lavoro. Le accompagniamo in un percorso che le porta a far emergere il proprio valore professionale ed economico. Come? In gruppo perché la dimensione della rete è fondamentale, attraverso un metodo nuovo che abbiamo sistematizzato e sperimentando”. L’altro pezzo dell’attività di Piano C è dentro le aziende. “Promuoviamo nelle aziende uno sguardo nuovo sul talento femminile – continua Sofia Borri – Valorizziamo le donne motivate e capaci che però non emergono”. Il tutto, scontrandosi spesso con fatiche organizzative e modelli di leadership improntati sull’egemonia maschile. 

In un contesto ancora discriminatorio, dove ad esempio la maternità è vissuta come un’anomalia, la normativa può aiutare a fare passi in avanti. “Innanzitutto – commenta la presidente di Piano C – darsi uno strumento condiviso e agganciarsi ai dati consente di inquadrare la reale situazione e di stabilire degli step di miglioramento. In più consente di misurare le performance positive di un approccio improntato sulla parità di genere, mettendo l’accento sul valore, anche economico, di quel pezzo di capitale umano. Si tratta di una leva potente. Occorre uscire dalla logica che la parità di genere è contro gli uomini. No, è per tutti. Per questo servirebbero politiche più coraggiose che incentivino le realtà a dotarsi di questi strumenti rendendoli vantaggiosi e trasformando quindi nel tempo le prassi organizzative positive in crescita e sviluppo”. Rispetto a questo le cooperative e il terzo settore hanno un ruolo fondamentale. “Da una parte – continua Sofia Borri – perché, per i servizi di cura di cui si occupano, nelle cooperative e nel terzo settore operano tante donne, dall’altra perché alcune prassi contro il gender gap si verificano già, anche se non codificate. Per questo il terzo settore può esercitare una forte spinta al cambiamento. Serve riconoscere ciò che di buono c’è già per valorizzarlo e serve portare la parità di genere in ambiti strategici come ad esempio quello dell’educazione in cui le cooperative sono spesso protagoniste. Che modelli su questo tema le cooperative portano avanti con i bambini e le bambine della fascia 0-6 e 7-11, ma anche con i preadolescenti e adolescenti? Occorre chiedersi e per prime le cooperative devono farlo: come educhiamo alla parità?. Il messaggio finale è proprio per le cooperatrici donne. “Nelle cooperative si concentra tanto talento femminile che non va dato per scontato e che va riconosciuto prima di tutto dalle stesse donne – conclude Sofia Borri – A loro dico: sperimentate l’empowerment, non abbiate paura del potere inteso come esercizio di possibilità e realizzazioni di visioni”. 

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Da Don Milani a oggi, Piergiorgio Reggio: “Solo il sapere attraverso l’esperienza è vero sapere”

“È proprio come il titolo del workshop: Fuori è Dentro. Solo il sapere attraverso l’esperienza è vero sapere. Solo ciò che passa tra dentro e fuori è conoscenza. Se no è un’acquisizione di concetti e competenze, ma non realmente rielaborate e possedute”.

Piergiorgio Reggio è stato ospite del workshop sull’educazione organizzato da CGM nella Valle del Mugello, in Toscana, in collaborazione con il Consorzio Co&So. Una due giorni in cui, anche grazie al suo contributo, si è potuto approfondire e attualizzare il messaggio di Don Milani e della scuola di Barbiana.

Piergiorgio Reggio è docente di Pedagogia dell’età della vita all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di Brescia e insegna Ermeneutica delle pratiche formative all’Università di Verona. Pedagogista e formatore, è presidente della Cooperativa Progetto 92 di Trento e vicepresidente dell’Istituto Paulo Freire con sede a Lecce.

La sua passione per Don Milani è nata da giovanissimo. A 17 anni ha fatto esperienza come educatore alle scuole popolari milanesi del prete operaio Don Cesare Sommariva, amico di don Milani, e negli anni 70 ha partecipato a progetti ispirati a Don Milani e declinati al mondo operaio milanese. Negli anni ’80, poi, a Barbiana ha frequentato i campi estivi di coordinamento per gli insegnanti non violenti. Ha letto e scritto libri sul “metodo Barbiana”: suo ‘Lo schiaffo di Don Milani’ pubblicato nel 2014 e ristampato nel 2020. “Occorre rileggere Don Milani per concentrarsi sulle pratiche educative dell’oggi – spiega il docente di Trento – A 60 anni di distanza, sarebbe fuori luogo e patetico riproporre la scuola di Barbiana perché nel frattempo è cambiato il mondo. Ma Don Milani ci provoca e ci fa ritornare alle radici dell’educazione”. 

Due i temi fondamentali di Don Milani che, secondo Piergiorgio Reggio, parlano a educatori e operatori sociali di oggi. Il primo è quello della giustizia nell’educazione. “Ai tempi di don Milani l’educazione era un sistema selettivo che penalizzava alcune aree del paese, come quelle montane, e alcune classi sociali – dice Piergiorgio Reggio – Poi, abbiamo vissuto un’esclusione dagli studi dei migranti interni provenienti dal sud Italia e oggi viviamo quella di bambini e ragazzi del sud del mondo. Il fenomeno è cambiato ma il tema è ancora attuale e riporta alla domanda di fondo: perché imparare? Per Don Milani la conoscenza è potere: sapere vuol dire poter essere sovrani e non sudditi. Oggi noi che risposta diamo a quella domanda?”. Nel workshop di CGM, partendo da questa provocazione, è emersa una riflessione interessante sulla centralità della parola. “C’è un tema di potere nella parola perché la parola fa eguali – spiega il professore di Trento – Oggi non siamo di fronte solo ad un deficit linguistico, ma viviamo la necessità di accogliere una parola che per molti bambini e ragazzi è fatta anche di mutismi. A Barbiana gli studenti erano muti perché crescevano in una società chiusa e isolata, oggi viviamo il mutismo giovanile in un contesto in cui le possibilità di accesso a mondi diversi e lontani è infinita. Il mutismo allora è diverso, è un mutismo emotivo e del pensiero e di questo dobbiamo tenere conto nel fare educazione”.

La seconda provocazione di Don Milani per l’oggi si riassume nella domanda ‘perché insegnare?’.“Per Don Milani – racconta Piergiorgio Reggio – l’insegnamento era parte integrante della sua missione di prete e veniva vissuto con una forte responsabilità collettiva. Oggi ovviamente gli educatori hanno motivazioni diverse, ma occorrerebbe recuperare una educazione problematizzante, ovvero che non agisce solo sul piano individuale, ma su quello strutturale. Il bambino con difficoltà scolastiche vive sue difficoltà, ma anche difficoltà di contesto, di sistema. Ecco, intendere l’insegnamento così, consente di controllare il senso di onnipotenza di noi operatori e contemporaneamente di recuperare un ruolo sociale fondamentale, un ruolo che favorisce il cambiamento collettivo”. In tutto questo, centrali sono le metodologie. “L’outdoor education – prosegue Piergiorgio Reggio – è una modalità di un approccio metodologico più ampio, molto diffuso all’estero: l’apprendimento esperienziale. In tutti i contesti, artistici, urbani e anche naturali, il fare non deve essere fine a se stesso ma deve essere trasformato in apprendimento su se stessi. Solo così diventa conoscenza. E già a Barbiana c’erano elementi che oggi ispirano questo approccio”.  Ecco perché tornare, praticamente e metaforicamente, alla scuola di Don Milani è fondamentale. “Per ritrovare le sorgenti più vive dell’essere educatori oggi”, conclude Piergiorgio Reggio. Lui a Barbiana ci torna spesso. A metà ottobre accompagnerà nella terra di Don Milani cinque ragazzi inseriti in percorsi di giustizia riparativa. “Li stiamo preparando, vediamo Barbiana che effetto farà anche su di loro…”, sorride. 

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Nel carcere di Cagliari i panni sporchi si lavano insieme

A 24 anni, con una condanna di 30 da scontare, il progetto Lav(or)ando gli ha dato una grande possibilità, occupazionale e di vita: invece di essere trasferito al carcere per adulti, se supererà il periodo di prova, potrà essere affidato ad una comunità e lavorare come magazziniere in un supermercato. Fino alla completa libertà. 

A Cagliari, la Cooperativa Elan gestisce da diversi anni la lavanderia “Fresh&White” dellʼIstituto Penale per i Minorenni di Quartucciu e dal 2020 la lavanderia industriale della Casa Circondariale di Uta. Qui vi lavorano i detenuti adulti selezionati per il progetto Lav(or)ando, sostenuto da Fondazione con il Sud. Affiancati da un tutor, con un contratto di tirocinio di cinque mesi, si formano e gestiscono le attività di lavaggio, asciugatura, stiratura e confezionamento di capi sporchi. Con un sistema di tracciamento che, attraverso etichette barcode, consente di avere un controllo totale sul singolo capo evitando smarrimenti e garantendo un report sul numero di lavaggi. Dalla lavanderia di Uta passano 7.000 capi al mese provenienti dal carcere stesso, ma anche e soprattutto da commesse esterne. Così, i detenuti lavano le divise dei Vigili del Fuoco di Oristano e le lenzuola e gli asciugamani dei Carabinieri della Legione Sardegna. Negli anni si sono occupati dei ‘panni sporchi’ dell’Esercito, della Marina Militare e della Polizia Municipale di Cagliari. Un progetto di lavoro, di recupero sociale, di integrazione. Dentro e fuori dal carcere.

Terminato il tirocinio alla lavanderia nel carcere di Uta, infatti, dopo un percorso di orientamento lavorativo e di valutazione di obiettivi e competenze, chi può accedere a misure alternative alla detenzione o chi è assegnato al lavoro esterno (ex articolo 21) viene inserito per altri cinque mesi di tirocinio in imprese del territorio che operano in tutti i settori, dallo smaltimento dei rifiuti, alla grande distribuzione, alla gestione di riserve naturali. Per gli altri c’è la possibilità di essere assunti con un contratto a tempo determinato presso la lavanderia del carcere.

I detenuti coinvolti hanno un’età compresa tra i 24 e i 60 anni. Hanno storie e provenienze diverse. Qualcuno deve scontare l’ergastolo. Vengono proposti per il progetto dall’equipe educativa del carcere in base ad alcuni requisiti (condanna penale definitiva, pena residua non inferiore a 2 anni, possibilità di accedere alla misura ex art. 21 o alle misure alternative) e sottoposti a colloqui con la cooperativa. Il modello adottato da Elan è lo stesso per minori e adulti: quello della progettazione personalizzata portata avanti in collaborazione con la rete sociale del carcere e del territorio.

“Nella lavanderia
– spiega Elenia Carrus, vicepresidente della cooperativa Elan e Responsabile dell’Area inclusione sociale lavorativa – i detenuti investono il tempo infinito della detenzione in un’attività produttiva: acquisiscono competenze professionali e trasversali da spendere nel mercato del lavoro e nella vita e guadagnano uno stipendio che spesso utilizzano per aiutare le proprie famiglie”. 

Fondamentali per i percorsi, tre figure in particolare: il tutor aziendale che è responsabile della lavanderia, l’orientatore professionale che allo scadere dei primi cinque mesi di tirocinio affianca i detenuti nel bilancio di competenze e nel progetto professionale, e il tutor di accompagnamento che è un educatore ed è a supporto dei detenuti coinvolti, durante il tirocinio dentro e fuori dal carcere, diventando anche punto di riferimento per le imprese esterne che aderiscono al progetto e al marchio. Già, perché Lav(or)ando non è solo un progetto, ma è un vero e proprio marchio, etico e solidale. 

“Fare attività lavorativa con i detenuti è una infrastruttura economico-educativa permanente – spiega Carlo Tedde, responsabile del progetto Lav(or)andoPer questo abbiamo creato un marchio. Alle imprese che aderiscono, per ora una decina, garantiamo gratuitamente la messa a disposizione di un tutor che segue aziende e detenuti e l’accompagnamento rispetto a sgravi professionali e fiscali”. I vantaggi del marchio sono anche per il progetto che, così, è maggiormente riconosciuto e riconoscibile. “Si tratta della parte immateriale di bene comune – aggiunge Carlo Tedde – Questo è un progetto che va a vantaggio dei detenuti, delle imprese e di tutta la comunità perché abbassa drasticamente la recidiva, riduce i costi per lo Stato e quindi per i cittadini e crea valore sociale. Lavorare sull’occupabilità dei detenuti dentro e fuori dal carcere vuol dire alzare la capacità di cambiare e questo è strategico per tutti”. 

Il progetto Lav(or)ando dura 4 anni e sostiene il recupero sociale e l’integrazione di 24 persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi. Al momento sono stati attivati 17 percorsi. Con qualche tema da affrontare: dalla carenza di personale educativo in carcere rispetto agli oltre 570 detenuti adulti presenti alla gestione degli spostamenti esterni per raggiungere il posto di lavoro (“Abbiamo proposto l’utilizzo di bici elettriche con GPS che consentirebbero tra l’altro di tracciare i movimenti e che sono utilizzate già in altri istituti per questo tipo di progettualità”, dice Eliana); con una grande sfida: quella di aumentare sia le commesse esterne affinché la lavanderia possa sostenersi in autonomia, sia le imprese disposte ad inserire detenuti per ampliare l’offerta occupazionale; e con un sogno: aprire una lavanderia al dettaglio in centro città a Cagliari con anche bar annesso come punto di incontro e di socializzazione. Il modello sarebbe lo stesso, come anche il motto: “I panni sporchi laviamoli insieme”. Questa volta però nel cuore della comunità.