In una società in cui il desiderio è scomparso o è fagocitato dal prodotto, occorre riattivare la capacità autentica di vedere e colmare una mancanza di significati aprendoci in senso relazionale, e assumendo una postura che rende inquieti e fa muovere. Paolo Venturi e Flaviano Zandonai parlano del loro nuovo libro “Spazio al desiderio – Il potere delle aspirazioni per generare innovazione e giustizia sociale”, pubblicato da EgeaEditore e dialogato con rappresentanti di cooperative sociali, fondazioni, associazioni di volontariato, locali e nazionali.

Un titolo accattivante e ispirazionale: da dove nasce questo libro?
(Paolo) Nasce dall’urgenza di risignificare i processi di innovazione sociale ancorandoli al soggetto che li genera, ossia la persona. Ci siamo accorti che siamo estremamente ricchi di strumenti, metriche, normative, toolkit e buone prassi, ma sta evaporando la spinta che rende tutto questo potenzialmente utile: il desiderio. Dopo aver parlato di istituzioni (Imprese ibride), luoghi (Dove) e logiche (Neo-mutualismo), abbiamo maturato la consapevolezza di tornare a un fattore che non è nella disponibilità della tecnica o della tecnocrazia.
Siamo convinti che averlo ridotto o allontanato dalla realtà abbia indebolito il realismo e, quindi, anche la capacità di innovare. Ci interessava riportare il desiderio al centro delle azioni e delle strategie, con l’intento di stimolare sia le organizzazioni che hanno un orizzonte di interesse generale sia quelle che ridefiniscono la propria attività intorno all’impatto sociale. Senza desiderabilità non c’è innovazione sociale.
Un progetto a quattro mani: chi ha curato cosa?
(Flaviano) Seguiamo un approccio artigianale nel costruire i nostri libri. Disseminiamo contenuti piuttosto variegati e ad ampio raggio che ci tornano indietro arricchiti dai feedback di conversazioni e incontri che cerchiamo di coltivare con grande cura. Questa base “discussa” di contenuti cerchiamo poi di riassemblarla intorno a un’idea guida – in questo caso il desiderio – che scaturisce dal confronto con il nostro editore. Il resto è il classico, duro, lavoro dettato da tempi di consegna e struttura del format editoriale.
In una società in profonda crisi economica e sociale, costellata da guerre e disuguaglianze, la popolazione ha ancora dei desideri?
(Paolo) Ma certo. La persona è struttura di desiderio. Le aspirazioni non sono parte della disponibilità del “mondo”, ma il “mondo” (anche quello del lavoro) può spegnerle e non valorizzarle. Il nostro punto di vista è che senza il desiderio queste sfide non solo non si possono vincere, ma nemmeno affrontare.
Si tratta di sfide che richiedono agonismo e, in certi casi, antagonismo, che non possono essere sostenuti solo da linee guida, competenze, incentivi e norme giuridiche. Se non recuperiamo l’energia delle aspirazioni, non saremo in grado di giocare una partita orientata al cambiamento.
Quando parliamo di desiderio, nel libro intendiamo qualcosa di diverso rispetto al “purpose” che molte imprese (legittimamente) mettono al centro del proprio agire. Mentre il “purpose” è aziendale, il “desiderio” è personale. Può sembrare un paradosso, ma questo surplus emerge solo nella relazione e in un contesto che lo stimola. Abbiamo lasciato il tema del desiderio al consumismo: è arrivato il momento di riportarlo a casa.
Leggendo il libro, lo spazio al desiderio può essere applicato alle organizzazioni, agli strumenti che utilizziamo e alla leadership. In che modo possiamo farlo concretamente?
(Flaviano) Semplificando un po’ potremmo dire che il desiderio è la cartina tornasole della compliance e degli strumenti di gestione organizzativa. Se la cartina, come in chimica, non reagisce vuol dire che tutta una serie di strumenti rendicontativi, autorizzativi, gestionali, ecc. sono mortiferi e non generativi. Non vogliamo fare gli iconoclasti della burocrazia organizzativa (anche se ci piacerebbe) però il carico sta crescendo così tanto, anche nel terzo settore e nell’impresa sociale, da chiederci se sia ancora possibile risignificarla, dotarla di un senso, prima di esserne completamente fagocitati. La leadership da questo punto di vista si connota proprio per la sua capacità di fare “spazio al desiderio”, un po’ rimuovendo ostacoli ma soprattutto allestendo contesti di partecipazione e confronto.
“Il desiderio come chiave per affrontare le sfide dell’innovazione sociale”: dobbiamo allora rivedere il paradigma e ripartire dal desiderio?
(Paolo) Ma è sempre stato così. Siamo noi che abbiamo seppellito questa prospettiva con i post-it. L’innovazione sociale è un metodo per alimentare processi trasformativi (non meri cambiamenti) attraverso i beni relazionali, legando i mezzi a fini buoni per molti, creando istituzioni e processi capaci di rispondere a bisogni e potenziare la qualità della vita pubblica, in particolare per i più vulnerabili.
Secondo voi è pensabile che tutto questo accada senza una spinta e una motivazione intrinseca? È evidente che, senza una reale desiderabilità, l’esito è solo una proliferazione di progetti strumentali. Uno degli elementi che caratterizzano innovazione e impatto sociale è l’intenzionalità.
Io sono convinto che, senza desiderabilità, non ci sia un’autentica “intenzionalità”: A tal fine, quando disegniamo e progettiamo innovazione, dobbiamo verificare se lo stiamo facendo dentro un contesto arido o ricco di motivazioni e aspirazioni. Se queste non sono presenti, occorre ripartire da un lavoro maieutico.
Nel libro il tema del “fare comunità”, della leadership e dei luoghi è trattato come un insieme di meccanismi capaci di riattivare il desiderio.
Quindi il desiderio può essere il terzo pilastro della nostra società?
(Flaviano) Bella domanda. Direi che può essere una palestra per educare la nostra capacità a desiderare. Occorre infatti un certo “habitus” del desiderare. Un’espressività inconsapevole espone al rischio di veder espropriata la sua energia. Basti guardare a come il mercato, e il marketing in particolare, si è impossessato del desiderio. Le organizzazioni del terzo pilastro hanno, in potenza, la capacità di evidenziare due stati fondamentali per innescare e agire il desiderio. Il primo è quello dell’assenza, della mancanza. Il secondo stato è quello dell’attesa. Una sorta di situazione intermedia rispetto a una dimensione produttiva e performativa che viene spesso sottovalutata ma che invece rappresenta un “boost” fondamentale soprattutto se ci si muove in un’ottica di cambiamento, investimento, assunzione di rischio.
Siamo arrivati al termine di questa intervista e vi chiediamo: qual è il vostro desiderio?
(Paolo e Flaviano) Che il libro sia utile. Abbiamo appaltato alla piramide dei bisogni gran parte delle nostre azioni e strategie, dimenticandoci che la vera piramide è quella del desiderio. Ce lo ricorda molto bene Dante nel Convivio.
La domanda di innovazione e giustizia sociale rischia di diventare una FAQ piuttosto che una tensione condivisa da molti. In questo momento storico, il mio desiderio è tenere viva una sana inquietudine e stimolare le organizzazioni e le persone a guardare al futuro con positività.
Sappiamo bene che i tempi sono molto bui, ma non possiamo rinunciare a sperare e desiderare. La speranza, infatti, “non si fonda sulla certezza che le cose vadano sempre come vogliamo noi, ma sul fatto che ciò che facciamo abbia un senso” (V. Havel).